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martedì 28 dicembre 2010

Vita coniugale e Cassazione penale: rischia condanna per maltrattamenti il coniuge che aggredisce anche verbalmente l'altro

Vita coniugale e Cassazione penale: rischia una condanna per maltrattamenti il coniuge che aggredisce anche verbalmente l'altro quando le minacce sono continue e rendono la vita "penosa" 

    Le continue aggressioni verbali all'ex coniuge possono portare alla condanna per maltrattamenti.

    È il principio stabilito nella sentenza n. 45547 resa in data odierna dalla sesta sezione penale della Suprema Corte che riporta Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti". Con la decisione in commento gli ermellini hanno, infatti, confermato la condanna nei confronti di un marito che durante gli incontri settimanali sottoponeva la ex moglie a continue offese rendendole "disagevole e penosa l'esistenza", oltre a non versare il mantenimento per la donna e figli.

    La sentenza della Cassazione penale nel confermare parzialmente quella della Corte d'Appello di Venezia, eccettuato il punto della continuazione del reato, ha statuito che "i comportamenti abituali caratterizzati da una serie indeterminata di aggressioni verbali ingiuriose e offensive possono configurare il reato di maltrattamenti. Nella specie tali condotte, costantemente ripetute, hanno evidenziato l'esistenza di un programma criminoso diretto a ledere l'integrità morale della persona offesa, di cui i singoli episodi, da valutare unitariamente, costituiscono l'espressione ed in cui il dolo si configura come volontà comprendente il complesso dei fatti e coincidente con il fine di rendere disagevole e per quanto possibile penosa l'esistenza della moglie".

    Lecce, 28 dicembre 2010

                                                                                                                        Giovanni D'AGATA

martedì 21 dicembre 2010

Mobbing in ambito penale: vessazioni sul luogo di lavoro integrano il reato di violenza privata


    Mobbing in ambito penale: le vessazioni sul luogo di lavoro integrano il reato di violenza privata 

    Da tempo ormai Giovanni D'AGATA componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" è impegnato nel Nostro Paese nella lotta contro il mobbing ritenendo comunque utile un intervento legislativo alla luce delle numerose decisioni delle corti di merito e quelle di legittimità spesso contraddittorie l'una con l'altra e quindi avvertendosi l'esigenza di porre ordine al marasma venutosi a creare in materia e soprattutto per fornire risposte concrete alle esigenze di giustizia dei lavoratori.

    Con l'interessante sentenza n. 44803 di oggi 21 dicembre 2010 che riportiamo in commento, la cassazione penale interviene nuovamente sulla questione della qualificazione giuridica delle vessazioni del capo nei confronti dei dipendenti (con atti moralmente violenti e psicologicamente minacciosi).

    Secondo la Suprema Corte la condotta vessatoria e denigratoria del datore di lavoro o del capo integra il reato di violenza privata e non di maltrattamenti in famiglia o di mobbing.

    Gli ermellini, hanno modificato riqualificandole secondo il suddetto reato di violenza privata le accuse di maltrattamenti di un capo officina. In proposito, si legge in sentenza, "sembra piuttosto correttamente configurabile, proprio attraverso una motivata valutazione ed apprezzamento della richiamata prova specifica, peraltro motivatamente segnalata nell'impugnata sentenza a ribadita conferma di quanto già dedotto in primo grado, nella condotta dell'imputato il reato di violenza privata continuata aggravata ex art. 61 c.p., potendo ricondursi ai puntuali episodi,contestati nell'imputazione cui si è fatto cenno, i caratteri di una condotta moralmente violenta e psicologicamente minacciosa, idonei a costringere il lavoratore a tollerare uno stato di deprezzamento delle sue qualità lavorative nel contesto di una condotta articolata in più atti consequenziali ad un medesimo disegno criminoso, con l'intuibile aggravante della commissione del fatto con abuso di relazioni di prestazioni d'opera".

    Lecce, 21 dicembre 2010

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA       
 
 

Automobilista che investe pedone rischia sospensione della patente anche se procede a velocità moderata e si ferma a soccorrerlo


L'automobilista che investe il pedone rischia la sospensione della patente anche se procede a velocità moderata e si ferma a soccorrerlo. 
 

Lo ha stabilito il Consiglio di Stato con la sentenza n. 9021 del 16 dicembre scorso, respingendo il ricorso di un automobilista di Lecce che aveva investito un pedone sulle strisce pedonali.

Il trasgressore aveva sostenuto che il giorno dell'incidente procedeva in Lecce a velocità moderata e che si era subito fermato a soccorrere l'uomo investito.

Nella circostanza il pedone era rimasto gravemente ferito al volto e alla testa.

Ma i giudici respingendo le doglianze hanno sottolineato che "la sospensione della patente di guida ai sensi dell'art. 91 comma 4 t.u. 15 giugno 1959, n. 393 per un periodo massimo di due anni, in caso di investimento che abbia prodotto la morte o le lesioni personali gravissime o gravi, costituiva oggetto di un potere prefettizio tipicamente cautelare, autonomo rispetto all'esercizio dell'azione penale, il cui esercizio non presupponeva alcun accertamento di pericolosità del conducente, implicita nelle conseguenze causate dall'incidente".

Secondo Giovanni D'AGATA componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" la severa decisione dei giudici amministrativi si inserisce in un quadro normativo e giurisprudenziale di repressione degli illeciti sulle nostre strade imponendo ancora maggiori cautele da parte degli automobilisti.

    Lecce, 21 dicembre 2010

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA       

giovedì 16 dicembre 2010

Stop alla vendita di alcolici addizionati con caffeina

L'Agenzia per la sicurezza alimentare statunitense (Fda) propone di vietare la vendita di alcolici addizionati con caffeina: inducono comportamenti pericolosi. 

    Un mix se non letale, quantomeno da considerarsi pericoloso quello tra alcol e caffeina. Non è constatazione prettamente scientifica, lo sanno anche i nostri nonni, ma da quando alcune società produttrici di bevande hanno iniziato a pensare di miscelare le due sostanze per lanciare sul mercato questo tipo di drink di nuova generazione anche l'Agenzia per la sicurezza alimentare statunitense (Fda) ha segnalato a quattro aziende che la caffeina aggiunta alle loro bevande alcoliche è da considerarsi un additivo non sicuro.

    La procedura avviata dall'ente statunitense, infatti, prende spunto da un attento studio delle ricerche sugli effetti da assorbimento congiunto di alcool e caffeina che secondo la letteratura scientifica, senz'altro maggioritaria, possono indurre nell'individuo conseguenze e comportamenti pericolosi, come ad esempio intossicazione da alcol, violenza e soprattutto guida pericolosa che come è noto è tra le cause più alte di mortalità giovanile.

    V'è da specificare che la segnalazione non riguarda gli alcolici che contengono la caffeina solo perché presente naturalmente in uno o più ingredienti, per esempio l'aroma di caffè, ma quelli in cui viene artificialmente aggiunta che stanno diventando una moda tra i giovani al pari degli alcolpop e come questi venduti un po' dappertutto e senza alcun limite in lattine e confezioni dai colori sgargianti.

    Le analisi a base dell'allarme traggono spunto dalla circostanza che la caffeina può rallentare sino a mascherare indizi sensoriali che permettono a chi fa uso di bevande alcoliche di capire quando è il momento di smettere, inducendo, quindi, a un maggiore consumo delle stesse. Anche perché è noto che la caffeina non modifica in alcun modo il tasso alcoolemico nel sangue, e quindi non riduce i rischi e i danni per la salute associati all'abuso.

    Alcune di queste nuove bibite, contengono peraltro altre sostanze stimolanti, oltre alla caffeina, e la gradazione alcolica arriva sino al 12%, contro il 4-5% di una birra chiara.

    Poiché  non risulta che né l'Italia, né l'Europa abbiano ancora avviato indagini alimentari in merito, secondo Giovanni D'AGATA componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" non rimane che invitare a farne un uso limitatissimo, evitarne il consumo per chi deve mettersi alla guida di qualsiasi veicolo e monitorare il controllo della vendita ai minorenni che in quanto di alcolici rimane proibita.

    Lecce, 16 dicembre 2010

lunedì 13 dicembre 2010

Come avviene un normale caso di risarcimento danni dovuto ad incidente stradale

Il risarcimento danni dovuto ad un incidente stradale normale o meno avviene seguendo determinate regolate definite dalla vigente normativa. L'iter burocratico definisce che quando avviene un risarcimento danni bisogna iniziare una serie di perizie atte a scoprire chi ha causato cosa, e il tipo di danni che si sono avuti sia nei mezzi che nelle persone coinvolte.

Prendiamo per esempio il caso dell'investimento pedoni o comunque di altre vittime di incidenti stradali. La prima cosa che viene sempre fatta in questi casi è la perizia medico legale per scoprire gli effettivi danni subiti. Logicamente questa perizia non viene fatta subito dopo l'incidente ma qualche giorno dopo, questo perché una minima parte dei problemi esce subito dopo l'incidente, la maggior parte esce qualche giorno dopo con dolori e fastidi vari.

Per quanto riguarda invece il risarcimento per danni alle auto o altri tipi di mezzi, in questi casi vengono fatte delle perizie tecniche per scoprire innanzitutto come si è svolto l'incidente e poi i tipi di danni che gli automezzi e tutti i beni coinvolto hanno avuto.

by Mattia Cattelan - MG Web Solutions

sabato 11 dicembre 2010

Omicidio volontario per chi guida ubriaco? Deriva anticostituzionale del Sindaco di Firenze


Omicidio volontario per chi guida ubriaco? Deriva anticostituzionale del Sindaco di Firenze

Firenze, 11 Dicembre 2010. Il Sindaco di Firenze, in un incontro pubblico per ricordare un giovane ucciso da un motociclista ubriaco, si e' impegnato per una proposta di legge di iniziativa popolare perche' l'omicidio colposo per questi reati sia trasformato in volontario. "Sarebbe bello se Palazzo Vecchio -ha detto Matteo Renzi- fosse la sede dove venire a firmare per una modifica della legge".

Al di la' del sapore populistico a cui e' ispirata questa sortita, evidentemente per raccogliere consensi attraverso appelli alla pancia e non al cervello, il primo cittadino di Firenze dovrebbe a nostro avviso porre maggiore attenzione a cio' che dice: vuole forse il Sindaco cambiare la nostra Costituzione?

A parte il caso -improbabile pur se gia' previsto dalla legge- di chi, dopo essersi ubriacato, si mette volutamente al volante con l'intento di ammazzare qualcuno, trasformare la colpa (reato commesso ma non voluto) in dolo (reato che si e' appositamente voluto commettere) e' incostituzionale e viola i più elementari principi del diritto della tradizione giuridica occidentale: sorgerebbe una sorta di responsabilita' oggettiva che contraddice i principi garantisti della Costituzione in materia penale.
Il Sindaco avrebbe potuto proporre di inasprire le aggravanti, con sanzioni adeguate all'intensità della colpa... e strappare lo stesso applausi, ma forse per il nostro era troppo poco. 


Noi non vogliamo insegnare il mestiere di Sindaco a Matteo Renzi, ma come associazione di cittadini vittime delle politiche dell'amministrazione, avremmo gradito prendere atto di un maggior impegno nel prevenire le cause degli incidenti piuttosto che invocare leggi assurde, per esempio:
- le buche delle strade fiorentine, su cui l'amministrazione si dice impegnata... ma poco, visto che ci si continua a far male;
- le campagne di informazione su alcool e guida, che anche sappiamo esserci... ma poco, visto che i controlli di polizia per strada sono pochissimi.


Per concludere, un consiglio al Sindaco: per evitare di dire sciocchezze e aiutare concretamente i suoi amministrati a vivere meglio, cambi consulente sul codice della strada:
- prima le presunte carte false che il Comune di Firenze ha fatto per ottenere l'autorizzazione a piazzare autovelox li' dove non possono essere, da cui sono scaturite multe che superano di ben tre volte quelle fatte dalla precedente amministrazione (1).. vedremo come finira' con le nostre denunce in Procura e i ricorsi al giudice di pace;
- ora anche una proposta chiaramente incostituzionale e forcaiola per punire reati gia' ampiamente punibili...
... se il Sindaco vuole, siamo a disposizione dell'amministrazione.

(1) http://www.aduc.it/comunicato/autovelox+firenze+ultimi+giorni+fare+ricorso+contro_18331.php

COMUNICATO STAMPA DELL'ADUC
Associazione per i diritti degli utenti e consumatori
Email aduc@aduc.it
Tel. 055290606
Ufficio stampa: Tel. 055291408


Postato da ADUC su IL COMUNICATO STAMPA
del CorrieredelWeb.it

giovedì 9 dicembre 2010

Privacy e nullita' delle multe

Privacy e nullità delle multe per la mancata adozione del documento programmatico della sicurezza (privacy) da parte del Comune. Importante sentenza del Giudice di Pace di Bari 

    Tempo fa, addirittura il 09.03.2009 avevamo segnalato l'importanza dell'adozione da parte dei Comandi delle Polizia Locali, ma probabilmente anche di quelli di polstrada e carabinieri e comunque di tutti gli enti accertatori d'infrazioni, del documento programmatico di sicurezza per la tutela della privacy ai fini della validità degli stessi accertamenti e quindi dei verbali.

    Nel comunicato facevamo presente che da una semplice lettura del D. Lgs 196/03 il cosiddetto testo unico sulla "privacy" (Codice in materia di protezione dei dati personali) che disciplina la materia della raccolta dei dati personali, risultasse espressamente che i dati personali trattati in violazione della suddetta normativa sarebbero assolutamente inutilizzabili per qualsiasi fine e quindi anche per l'accertamento delle violazioni amministrative.

    Oggi Giovanni D'AGATA, Componente Nazionale del Dipartimento Tematico "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti", non può non compiacersi nel segnalare l'importante sentenza del Giudice di Pace di Bari la n. 2309 del 11.03.2010 che riporta integralmente la motivazione che da tempo inseriamo nei nostri ricorsi in materia di multe e privacy.

    Nell'accogliere il ricorso di un automobilista avverso un verbale del comune di Valenzano ha ritenuto assorbente la motivazione relativa all'inutilizzabilità dei dati personali dell'opponente, condannando infine alle spese lo stesso ente.

    Ha sostenuto opportunamente il giudicante che "Il d. lgs. n. 196/03 impone a chiunque sia stabilito nel territorio dello Stato o comunque soggetto alla sovranità dello Stato e che effettui il trattamento di dati personali (art. 5) ivi compresi, quindi, gli enti pubblici, il rispetto di una serie di regole, volte a tutelare la privacy dei soggetti i cui dati vengono trattati, regole che vanno dalla tenuta di un aggiornato documento programmatico sulla sicurezza, al possesso di strumenti idonei a proteggere i dati da ingerenze esterne e, in generale, dal trattamento illecito degli stessi; dall'individuazione di un responsabile del trattamento, alla prescrizione di un'esplicita delega scritta da parte di quest'ultimo a chi poi tratti effettivamente i dati.

    L'art. 11, comma 2 del cit. decreto legislativo prevede poi espressamente l'inutilizzabilità dei dati trattati "in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali". Ebbene, nonostante l'esplicita contestazione sul punto da parte dell'opponente, il Comune di Valenzano non ha in alcun modo provato il rispetto delle regole basilari, qui testé richiamate, in materia di trattamento di dati sensibili.

    Ne deriva che illegittimamente - facendo uso di dati; che erano in realtà inutilizzabili - la Polizia Municipale del Comune di Valenzano ha individuato la proprietaria del veicolo con cui venne commessa l'infrazione per cui causa".


    Lecce, 9 dicembre 2010

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA      

martedì 7 dicembre 2010

Cassazione: licenziato in tronco chi si addormenta durante l'orario di lavoro

 Cassazione, è da licenziare in tronco chi si addormenta durante l'orario di lavoro 

    La sezione " Terza sezione penale " della Cassazione ha bocciato il ricorso del lavoratore e nella sentenza 43412 del 7 dicembre 2010 ha sottolineato che "l'essersi addormentato costituisce abbandono del posto di servizio".

    Il giudice di legittimità ha respinto il ricorso proposto da un agente della Polizia di Stato, che la Corte d'Appello di Milano aveva condannato per abbandono del posto di lavoro poichè, in servizio alla frontiera, si era allontanato per recarsi a riposare nel gabbiotto.

    In questo modo ha reso definitiva la condanna a quattro mesi di reclusione per abbandono di servizio nei confronti di Sabino G., 30enne agente di Polizia in servizio al valico di Zenna e addetto al controllo dei passaporti che, il 20 agosto del 2004, alle prime ore del mattino, era stato sorpreso addormentato nel gabbiotto di vigilanza.

    Per la Suprema Corte, "l'addormentamento, quando dipende da una libera scelta del soggetto e non da cause patologiche, è sempre un atto volontario" e, come tale, costituisce abbandono di servizio. Sabino G. era già stato condannato a quattro mesi di reclusione dalla Corte d'appello di Milano, nel novembre 2009, in violazione della legge 121 del 1981 poiché alle 6.50 del 20 agosto di sei anni fa "era stato sorpreso addormentato a bocca aperta nel proprio gabbiotto e non si era svegliato nonostante il rumore del passaggio dell'autovettura di servizio e nonostante che l'ispettore avesse aperto il vetro di separazione del gabbiotto".

    Invano il lavoratore ha rivendicato una sanzione minore sostenendo, tra l'altro, di non avere di non avere "abbandonato il posto di lavoro" cercando giustificare la propria condotta.

    La Suprema Cassazione ha infatti sancito che, non solo un tale comportamento indicava il venir meno al dovere generale legato alla tenuta della divisa, ma che "abbandona il servizio non solo colui che materialmente si allontana dal luogo dove il servizio deve essere prestato, ma anche colui che, pur presente nel luogo in realtà non lo presta. Colui che, peposto al controllo dei passaporti in una zona di frontiera, si addormenti nel relativo gabbiotto, certamente non presta il servizio che gli è affidato".

    Secondo Giovanni D'Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" e fondatore dello "Sportello Dei Diritti", tale sentenza è certamente eccessiva anche perché mentre nelle grandi aziende americane si creano spazi perché i dipendenti possano schiacciare un pisolino pomeridiano, in Italia i dipendenti sorpresi a fare la siesta vengono licenziati ed addirittura è "Configurabile il reato d'abbandono del posto di servizio".

    Lecce, 7 dicembre 2010

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA                                                                                                          
 

lunedì 6 dicembre 2010

Sicurezza Lavoro: il privato risponde degli infortuni in casa

 Sicurezza sul lavoro: il privato risponde degli infortuni in casa 

    " Il privato, in qualità di committente di lavori edili da svolgersi nella sua abitazione, risponde di omicidio colposo qualora l'operaio da lui incaricato, in assenza di qualsiasi cautela relativa alla sicurezza, muoia in occasione del lavoro assunto".

    Lo ha stabilito la IV Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 42465 del 1° dicembre 2010, in merito alla morte di un operaio che, incaricato di svolgere dei lavori edili all'interno di un'abitazione privata, precipitava da un'impalcatura non munita di parapetti e in assenza di qualsiasi cautela atta a scongiurare i rischi di caduta dall'alto.

    Gli ermellini respingendo il ricorso del proprietario avverso le le sentenze di primo grado e secondo grado che disponevano una pena di otto mesi di reclusione, lo hanno considerato responsabile della morte di un operaio contattato per dipingere i soffitti del suo appartamento.

    La vittima, senza cintura di sicurezza e senza casco, era precipitata, da oltre 3 metri, dove lavorava su assi inchiodate, raggiungibili con una scala e prive di parapetto.

    I Giudici di legittimità, con la sentenza hanno affermato che in tema di sicurezza sul lavoro "riveste una posizione di garanzia il proprietario (committente) che affida lavori edili in economia a lavoratore autonomo di non verificata professionalità e in assenza di qualsiasi apprestamento di presidi anticaduta a fronte di lavorazioni in quota superiore ai metri due".

    Inoltre hanno sottolineato che, è errata la tesi in diritto secondo la quale "in caso di prestazione autonoma (d'opera) il lavoratore autonomo sia comunque l'unico responsabile della sicurezza".

    Spiegano i Supremi giudici come correttamente, nel caso di specie, la Corte d'appello abbia accertato con ragionevole certezza l'altezza del punto di precipitazione e l'identificazione della catena causale che lega la morte, conseguente alla caduta, all'assenza di presidi di sicurezza e alle omissioni poste in essere dal committente. con sentenza n. 24233 del 30 novembre 2010 sottolineando che "il risarcimento del danno professionale, biologico ed esistenziale derivante dal demansionamento e dalla dequalificazione del lavoratore postula l'allegazione dell'esistenza del pregiudizio e delle sue caratteristiche, nonché la prova dell'esistenza del danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che, quanto al danno esistenziale, può essere fornita anche ricorrendo a presunzioni".

    Secondo Giovanni D'Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" e fondatore dello "Sportello Dei Diritti", tale sentenza certamente allarga il diritto di tutela a garanzia della salute dei lavoratori e indica i paletti di una norma che, seppure tarata su diversi modelli di lavoro subordinato, esplica la sua funzione anche al di là del lavoro dipendente, come chiaramente indicato dall'articolo 7, statuendo una sorta di equiparazione tra lavoratori autonomi e subordinati.

    Lecce, 6 dicembre 2010

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA    

Gli incidenti stradali nei giorni nostri: cosa fare a riguardo

Secondo le ultime statistiche degli enti preposti alla sicurezza della strada, gli incidenti stradali negli ultimi anni non hanno avuto ne un calo ne un aumento. Si potrebbe dire che di incidenti stradali ce ne sono molti di meno, tuttavia quando avvengono, coinvolgono molte persone anche in modo molto grave.

Che avvenga un normale tamponamento tra automobili, un grave incidente con ribaltamento dell'automezzo oppure o investimento pedoni in città, l'iter da seguire dopo l'incidente è sempre lo stesso: utilizzare la constatazione amichevole, oppure chiedere il soccorso delle forze dell'ordine che daranno il via all'iter burocratico fatto di perizie e richieste da fare all'assicurazione coivolte.

Nel malaugurato caso che il colpevole dell'incidente stradale non abbia neanche l'assicurazione, il risarcimento delle vittime viene fatto ad opera del fondo per le vittime della strada, ovvero un forno istituito dallo Stato che definisce l'ammontare del risarcimento "pubblico".

Bisogna ricordare una cosa molto importante nel caso di incidenti stradali di un certo spessore, ovvero la perizia medico legale. Quando l'assicurazione deve sborsare il risarcimento effettivo, vengono sempre fatte delle visite mediche per scoprire l'effettivo ammontare dei danni, i quali poi verranno commisurati al giusto risarcimento danni.

by Mattia Cattelan - MG Web Solutions

domenica 5 dicembre 2010

Multe ingiuste? Non piu' quando la Prefettura è attenta ai termini.

Codice della Strada e ricorsi prefettizi ai verbali. Quando la Prefettura è attenta ai termini. Un altro interessante decreto di archiviazione, questa volta del Prefetto di Pisa, per il ritardo nei termini di trasmissione degli atti da parte dell'ente accertatore e nell'emissione dell'ordinanza – ingiunzione stabiliti in sessanta e centoventi giorni dagli articoli 203 comma 2 e 204 1bis del C.d.S. 

    La P.A. non sempre si dimostra scrupolosa nell'esaminare i motivi di ricorso gerarchico e perciò molte volte il cittadino è costretto a ricorrere all'Autorità Giudiziaria competente per vedere accolte le proprie ragioni.

    Tutto ciò non accadrebbe se come è successo con l'ordinanza di archiviazione di un verbale emessa dalla Prefettura di Pisa, su reclamo gerarchico disciplinato dall'art. 203 del Codice della Strada, i Prefetti e gli uffici all'uopo incaricati verificassero puntualmente ogni aspetto del ricorso, così evitando di intasare le aule giudiziarie dei Giudici di Pace e non si limitassero a dei "copia e incolla" di rigetto come sovente purtroppo continua ad accadere.

    Per queste ragioni Giovanni D'Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di IDV e fondatore dello "Sportello Dei Diritti" porta all'attenzione della cittadinanza e dei media un recente decreto di archiviazione della Prefettura di Pisa a seguito di un ricorso predisposto dai consulenti dello "Sportello Dei Diritti" avverso un verbale elevato per superamento del limite di velocità rilevato con apparecchiatura elettronica.

    Questa volta però la Prefettura non è entrata nel merito del ricorso o della rilevazione dell'infrazione ed ha tuttavia evidenziato il superamento dei termini di cui agli articoli 203 comma 2° e 204 1bis del C.d.S. che stabiliscono in sessanta e centoventi giorni i limiti temporali entro i quali l'organo accertatore è tenuto a trasmette gli atti del procedimento e la Prefettura competente a decidere del ricorso stesso.

    Nel caso di specie, la Prefettura ha motivato l'archiviazione ritenendo peraltro che "nella fattispecie, la tardività della definizione del suddetto gravame non possa documentalmente giustificarsi in base ad obbiettivi tempi tecnici della fase endoprocedimentale" e pertanto ha ritenuto opportuno provvedere all'archiviazione del verbale.

    Lecce, 05 dicembre 2010                            

                              Giovanni D'AGATA

                                                        Componente del

                                                                          Dipartimento Tematico Nazionale

                                                                                "Tutela del Consumatore" 

sabato 4 dicembre 2010

Cassazione:risarcimento danno per demansionamento anche ricorrendo a presunzioni.

Cassazione:risarcimento del danno per demansionamento anche ricorrendo a presunzioni.

    La prova può essere fornita anche ricorrendo a presunzioni.

    Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con sentenza n. 24233 del 30 novembre 2010 sottolineando che "il risarcimento del danno professionale, biologico ed esistenziale derivante dal demansionamento e dalla dequalificazione del lavoratore postula l'allegazione dell'esistenza del pregiudizio e delle sue caratteristiche, nonché la prova dell'esistenza del danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che, quanto al danno esistenziale, può essere fornita anche ricorrendo a presunzioni".

    I Giudici di piazza Cavour, respingendo le doglianze datoriali hanno rigettato la ratio della decisione del giudice del gravame secondo il quale riteneva erroneo il riconoscimento del danno da demansionamento in favore di un proprio dipendente perché non sorretto da idonea prova, hanno ribadito, richiamando la sentenza n. 4652/2009, che "in caso di accertato demansionamento professionale del lavoratore in violazione dell'art. 2103 c.c., il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del relativo danno, avente natura patrimoniale e il cui onere di allegazione incombe sul lavoratore, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto". Spiegano i Supremi giudici come correttamente, nel caso di specie, la Corte d'appello ha ritenuto che l'onere probatorio posto a carico del lavoratore può essere adempiuto, oltre che mediante prove di natura documentale e testimoniale, anche in via presuntiva. Detta dimostrazione può ritenersi assolta, secondo le regole sancite dall'art. 2727 c.c., "allorché venga offerta una serie concatenata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (non in astratto) descrivano: durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell'interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto".

    Secondo Giovanni D'Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" e fondatore dello "Sportello Dei Diritti", tale sentenza certamente una decisione esemplare che potrà invogliare i lavoratori vittime di abusi sul posto di lavoro e costituisce precedente persuasivo e da monito per tutti i datori di lavoro perché possano pensarci non una, ma cento volte prima di umiliare e vessare il proprio dipendente.

      Lo "Sportello dei Diritti" rimane a disposizione dei cittadini per fornire assistenza gratuita per verificare l'esperibilità di azioni di recupero.

    Lecce, 4 dicembre 2010

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA                                                                                                        

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  Sede Provinciale "Italia dei Valori" di Lecce – V. le Lo Re n. 22 – 73100 - LECCE  

venerdì 3 dicembre 2010

Anatocismo bancario, Cassazione buone news per i consumatori, cattive per le banche.

Anatocismo bancario, buone notizie dalla Cassazione per i consumatori cattive per le banche.

La prescrizione per richiedere gli interessi anatocistici decorre dalla chiusura del conto. 

    Le Sezioni unite civili della Corte di cassazione con la sentenza n. 24418 del 2 dicembre, hanno finalmente posto dei paletti sul termine decennale di prescrizione per richiedere alla banca gli interessi anatocistici indebitamente pagati.

    Secondo i Giudici della Suprema Corte la prescrizione decorre "dalla data in cui è stato estinto il saldo di chiusura del conto" ed inoltre sugli interessi maturati a debito del correntista non è legittima neppure la capitalizzazione annuale.

    Gli Ermellini hanno respinto anche il motivo incidentale presentato dal correntista che lamentava la misura degli interessi appicati negli anni dall'istituto di credito.

    "Sul punto della Prescrizione le Sezioni unite hanno chiarito una volta per tutte, dando più tempo ai clienti che presentano istanza per la resitutizione degli interessi anatocistici indebitamente versati che "dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisce per far dichiarare la nullità della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione è soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo funzione ripristinatoria della provvista, dalla data in cui è stato estinto i1 saldo di chiusura dei conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati." Ma non basta. Sul fronte capitalizzazione degli interessi il Collegio esteso ha rafforzato un principio già sancito dal legislatore e secondo cui "l'interpretazione data dal giudice di merito all'art. 7 del contratto di conto corrente bancario, stipulato dalle parti in epoca anteriore al 22 aprile 2000, secondo la quale la previsione di capitalizzazione annuale degli interessi contemplata dal primo comma di detto articolo si riferisce ai soli interessi maturati a credito del correntista, essendo invece la capitalizzazione degli interessi a debito prevista dal comma successivo su base trimestrale, è conforme ai criteri legali d'interpretazione del contratto ed, in particolare, a quello che prescrive l'interpretazione sistematica delle clausole; con la conseguenza che, dichiarata la nullità della surriferita previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall'art. 1283 c.c. (il quale osterebbe anche ad l'eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale), gli interessi a debito del correntista debbono essere calcolati senza operare capitalizzazione alcuna" fonte Debora Alberici.

    Secondo Giovanni D'Agata componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" e fondatore dello "Sportello Dei Diritti", tale sentenza certamente potrà invogliare migliaia e migliaia di correntisti a procedere per il recupero di quanto indebitamente percepito dalle banche in sede di capitalizzazione dgli interessi passi sui conti correnti.

      Lo "Sportello dei Diritti" rimane a disposizione dei cittadini per fornire assistenza gratuita per verificare l'esperibilità di azioni di recupero.

    Lecce, 3 dicembre 2010

giovedì 2 dicembre 2010

Circolazione stradale. Giro di vite della Cassazione penale sugli automobilisti indisciplinati

 Circolazione stradale. Giro di vite della Cassazione penale sugli automobilisti indisciplinati 
 

    Secondo la sentenza 42498 depositata il 1 dicembre 2010, risponde di omicidio colposo chi lascia la macchina in doppia fila con lo sportello aperto e provoca un incidente mortale.

    La Suprema Corte ha confermato la condanna di un automobilista romano per omicidio colposo, reato però nel frattempo estinto per prescrizione.

    Inutilmente l'imputato aveva tentato di difendersi smentendo il nesso causale tra l'aver lasciato la vettura in doppia fila e la morte del motociclista, che procedeva a forte velocità.

    I Giudici di Piazza Cavour hanno però respinto le doglianze dell'imputato ed hanno confermato la ratio della decisione del giudice del gravame sottolineando che tale la condotta di guida integra il reato di omicidio colposo.

    Secondo Giovanni D'AGATA, componente del Dipartimento Tematico "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" la Suprema Corte si dimostra intransigente al punto che rischia una condanna per omicidio chi lascia l'auto in doppia fila provocando un incidente mortale.

    .Lecce, 2 dicembre 2010

                                                                                                                  Giovanni D'AGATA

                                                                                                              Dipartimento Tematico Nazionale

                                                                                                                         "Tutela del Consumatore" 

mercoledì 1 dicembre 2010

Cassazione lavoro: legittimo licenziamento disciplinare del lavoratore per scarso rendimento.


 Cassazione lavoro: legittimo il licenziamento disciplinare del lavoratore per scarso rendimento. 

    A stabilirlo è stata la Corte di cassazione con la sentenza 24361del 1 dicembre 2010.

    Il ricorso era stato presentato da un dipendente di una spa contro la decisione della Corte d' Appello di Brescia che non aveva accolto la sua richiesta di annullamento del licenziamento.

    Secondo gli ermellini è " Legittimo il licenziamento disciplinare del lavoratore che ha uno scarso rendimento tanto da provocare malumori nei colleghi, costretti a terminare le sue attività".

    La Società datrice di lavoro tra i motivi degli addebiti disciplinari aveva sostenuto che i suoi colleghi, avevano sempre completato i lavori tralasciati dal collega, manifestando malcontento per tale motivo.

    L'uomo dal canto suo, lamentava il fatto che, a fronte di vari piccoli episodi che ne dimostravano scarsa diligenza, la società aveva lasciato correre, passando poi alla sanzione disciplinare rilevando che dalle sue inadempienze non era scaturito un danno alla società.

      I Giudici di piazza Cavour, respingendo le doglianze del dipendente hanno confermato la ratio della decisione del giudice del gravame secondo il quale "è legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento qualora sia risultato provato, sulla scorta della valutazione complessiva dell'attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente, ed a lui imputabile, in conseguenza dell'enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, avuto riguardo al confronto dei risultanti dati globali riferito ad una media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione".

    Secondo Giovanni D'AGATA, componente del Dipartimento Tematico "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" anche la Suprema Corte si dimostra intransigente sul rendimento sul posto di lavoro ponendo le basi per un giro di vite nei confronti di soggetti lavativi soprattutto quando il lavoro ricade sui colleghi. 

    Lecce, 1 dicembre 2010

                                                                                                                  Giovanni D'AGATA

                                                                                                              Dipartimento Tematico Nazionale

                                                                                                                         "Tutela del Consumatore" 
 

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