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sabato 29 gennaio 2011

Ministero Interno: illegittimi verbali ai sensi degli artt. 141 e 146 del c.d.s. elevati con strumenti automatici senza la presenza degli agenti accertatori se non sono ancora omologati o approvati

Ministero dell'Interno: sono illegittimi i verbali ai sensi degli artt. 141 e 146 del c.d.s. elevati con strumenti automatici senza la presenza degli agenti accertatori se non sono ancora omologati o approvati 

    Se i dispositivi di rilevazione elettronica delle infrazioni non sono debitamente omologati o approvati con apposito decreto ministeriale, ed in particolare i cosiddetti semafori intelligenti e comunque anche autovelox e photored di ultima generazione, non è possibile elevare infrazioni senza la presenza degli organi di Polizia Stradale. Così la circolare con numero di protocollo 209 del 19.01.2011 del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti – Dipartimento per  Trasporti, la Navigazione e i Sistemi Informatici e Statistici – Direzione Generale Sicurezza Stradale - Divisione II.

    Secondo il Ministero "i dispositivi o apparecchiature richiamati nei commi 1-ter e 1-quater dell'art. 201 (ndr per l'appunto le apparecchiature elettroniche con le quali è possibile elevare le infrazioni senza la contestazione immediata) devono essere omologati od approvati per la specifica funzione di rilevamento e non si può dunque impiegare per attività diverse un dispositivo omologato od approvato per un determinato accertamento, senza che ne sia stata garantita la funzionalità attraverso una specifica procedura".

    Secondo Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" risultano quindi nulli tutti i verbali elevati in violazione di quanto previsto dalla legge come confermato dalla circolare se privi di omologazione o approvazione.

    Lecce,  29 gennaio 2011

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA   
 
 

venerdì 28 gennaio 2011

Processi lumaca. Super risarcimenti in un anno. Giustizia rischia il collasso


 Processi lumaca. Super risarcimenti in un anno. Giustizia rischia il collasso

    Secondo la relazione del Procuratore Generale della Cassazione nel 2008 indennizzi per 81 milioni di cui ben 36 milioni e mezzo non pagati. E chi paga sono sempre i cittadini  

    La lentezza della Giustizia italiana è un problema che la politica sta cercando di affrontare da decenni senza purtroppo alcuna valida soluzione e a pagare il conto sono sempre i cittadini e quindi lo Stato che è costretto, dopo l'introduzione della legge 89/2001 meglio nota come "legge Pinto" , a dover indennizzare le vittime dei processi lumaca  che spesso, anche dopo la sentenza che riconosce il diritto all'indennizzo, devono aspettare ancora altro tempo per intascare materialmente l'importo liquidato. L'aveva ricordato qualche giorno fa in un suo comunicato Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti", in merito ad una recente sentenza del Consiglio di Stato sull'obbligo di provvedere all'equa riparazione entro sessanta giorni.

    Oggi arriva la conferma di quanto avevamo riportato: sono, infatti, troppi i risarcimenti per la lentezza dei processi e quindi il comparto Giustizia è a rischio default. Nel solo 2008 l'importo che lo Stato italiano è stato condannato a pagare per risarcire le vittime dei processi-lumaca ammonta a circa 81 milioni di euro, di cui ben 36 milioni e mezzo «non risultano pagati malgrado l'esecutività del titolo». Il preoccupante grido d'allarme non viene da qualche istituto statistico, ma direttamente dal procuratore generale della Corte di Cassazione, Vitaliano Esposito, nella relazione per la cerimonia dell'apertura dell'anno giudiziario 2011.

    «Lo Stato – secondo quanto dichiarato dal PG - preferisce pagare invece che risolvere la problematica dell'esorbitante durata dei processi ma, per di più, non è neppure in grado di adempiere a tali obblighi di pagamento. Cosa poco consona per un Paese che fa parte della elitaria cerchia del G20». «È oramai sotto gli occhi di tutti – prosegue Esposito - come la situazione quasi fallimentare della giustizia e dei suoi tempi si stia trasformando in una situazione che si può definire quasi di insolvenza per lo Stato». È noto, peraltro, che l'Italia risulti inadempiente rispetto ai principi del giusto-processo: «E ciò ha portato di recente la Corte di Strasburgo a parlare, senza mezzi termini, di defaillance dello Stato italiano, tale da minacciare perfino i meccanismi di applicazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali». Al 21 dicembre scorso la Corte europea dei diritti dell'uomo «ha constatato in 475 casi la violazione della convenzione europea da parte dello Stato italiano per i ritardi nella corresponsione dell'indennizzo liquidato dalle Corti d'appello».

    Lecce,  28 gennaio 2011

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA  

giovedì 27 gennaio 2011

Gli incidenti stradali: dalla piaga al risarcimento danni

Attualmente i sinistri stradali sono una delle cause principali di morte traumatica per giovani, sia maschi che femmine, con un'età compresa tra i 16 e i 30 anni.

Cosa significa questo? Che i ragazzi giovani sono quelli più spericolati alla guida e con il minor buon senso immaginabile.

Le cosiddette stragi del sabato sera avvengono proprio quando i ragazzi tornano dalla discoteca, stanchi, ubriachi, drogati o fumati e non si rendono conto della velocità che fanno fino a che non si schiantano su un platano o su un muro in cemento armato.

Tralasciando il discorso della prevenzione, che essendo un discorso molto importante ha bisogno di una sua sede apposita per argomentare, parliamo invece del risarcimento danni.

Sia negli incidenti stradali appena descritti che in altri tipi di sinistri stradali come l'investimento pedone, è diritto delle vittime di richiedere un risarcimento dei danni subiti ad opera del colpevole del sinistro.

Il risarcimento si basa sul fatto che le vittime si devono sottoporre a visite medico legali il cui obiettivo è quello di confrontare i danni subiti con delle speciali tabelle per il calcolo del risarcimento per quanto riguarda il danno biologico.

Capitano però delle volte in cui il colpevole dell'incidente stradale non abbia l'assicurazione. Cosa si fa in questi casi? Fulmini e saette di sicuro bisogna avvertire subito le forze dell'ordine e chiedere aiuto a loro. Per quanto riguarda il risarcimento, deve essere chiesto attraverso il fondo di garanzia vittime della strada, un fondo istituito dallo Stato proprio per questi motivi.

mercoledì 26 gennaio 2011

Cassazione penale: sentenza sulle molestie telefoniche

Sentenza della Cassazione penale sulle molestie telefoniche: sono sufficienti poche chiamate in breve tempo per integrare gli estremi del reato purché si dimostri la volontà di disturbare la vittima con frasi a sfondo erotico 

      Se il termine stalking è ormai entrato nel linguaggio e nella cronaca comuni per identificare fatti eclatanti di gravi e continuativi atti di persecuzione - come Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" ha più volte evidenziato - la cassazione penale con la sentenza n. 1838/11, ci ricorda che eventi di minore clamore sociale quali le molestie telefoniche, anche per brevi lassi temporali, possono integrare la contravvenzione di cui all'articolo 660 del codice penale che punisce il colpevole con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda fino a euro 516.

    Così  rischia la condanna colui che ripetutamente chiama una ragazza sul cellulare rivolgendole frasi a sfondo erotico. E ciò anche se le telefonate furono in sostanza poche e pure concentrate nel tempo, purché si dimostri il dolo generico dell'agente, inteso come volontà e consapevolezza di arrecare disturbo alla parte offesa.

    Secondo la prima sezione penale della Suprema Corte che si rifà ad altro recente precedente (Cass. Pen. Sez. 1° n. 29933/10), integrano la contravvenzione di molestia alle persone anche poche telefonate disturbatrici, specie se di contenuto odioso, non esimendo la sussistenza del reato l'eventuale concorrenza di altri disturbatori – rimasti ignoti o comunque estranei al processo.

      Nel  caso di specie l'imputato, peraltro, non è riuscito a dimostrare da una parte di aver davvero dimenticato il cellulare al bar, come sottolineato dagli ermellini che hanno confermato la sentenza di condanna del Tribunale di Salerno, e dall'altra la mancanza dell'elemento soggettivo atteso che il reato di cui all'art. 660 del codice penale: "è sorretto dall'elemento psicologico del dolo generico- coscienza e volontà di arrecare disturbo o molestie, nella fattispecie palesemente ricorrenti – essendo la petulanza e il biasimevole motivo elementi che confluiscono in quelli oggettivi della fattispecie, ed essendo irrilevanti gli eventuali motivi personali".

    Lecce,  26 gennaio 2011

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA 

martedì 25 gennaio 2011

Consiglio di Stato interviene su elettrosmog


Il Consiglio di Stato interviene in materia di elettrosmog: no all'autorizzazione ad un nuovo ripetitore per telefonia mobile se il Comune non esclude, già in sede d'istruttoria, interferenze con l'impianto esistente 

    La sentenza n. 372/11 della sesta sezione del Consiglio di Stato pone a dir poco signficativi "paletti" in materia di elettrosmog e ripetitori per cellulari, così Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti".

    Secondo la decisione della suprema corte amministrativa le antenne del segnale dei cellulari devono essere localizzate sul territorio in modo da ridurre al minimo l'emissioni di onde elettromagnetiche: spetta al Comune, prima di assentire la realizzazione di  un nuovo impianto radio base, verificare se la nuova stazione potrà generare interferenze con quello già presente e autorizzato dall'amministrazione.

    È preciso dovere dell'ente locale mettere in atto tutte le iniziative possibili a ridurre l'esposizione dei cittadini ai campi elettromagnetici e quindi di vigilare sulla potenziale dannosa proliferazione degli impianti.

    Nell'accogliere il ricorso dell'azienda che gestisce i tralicci di telecomunicazione per alcuni gestori avverso la frettolosa autorizzazione di una giunta municipale ad un nuovo ripetitore radio di proprietà di un gestore telefonico nazionale che era destinato a sorgere a soli sette metri dall'impianto di proprietà della ricorrente, i giudici amministrativi hanno applicato il principio secondo cui se la nuova stazione di trasmissione del segnale dovrà sorgere molto vicino ad un altra operativa da tempo, l'amministrazione deve sempre controllare già in sede di istruttoria del nuovo titolo autorizzatorio l'eventuale situazione di conflitto con l'altro impianto di ripetizione d'onde attivo sul territorio comunale.

    Non ci resta che lanciare l'appello, ovvio, a tutti quei comuni che nel corso degli anni hanno reso possibile la proliferazione nei propri territori di antenne di ogni tipo, affinché pongano un argine alla crescita dannosa d'impianti, che spesso risultano inutili, perchè incoraggiata dall'aspra concorrenza delle multinazionali della telefonia e verifichino puntualmente tutti i parametri di legge comprese le nuove importanti linee tracciate dalla decisione commentata.

    Lecce,  25 gennaio 2011

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA      

giovedì 20 gennaio 2011

Buste paga gonfiate: perseguibile penalmente per "estorsione" il datore di lavoro


Buste - paga "gonfiate": è perseguibile penalmente per "estorsione" il datore di lavoro che le impone anche nel caso in cui i dipendenti abbiano avuto la possibilità di andare dai sindacati o dal giudice del lavoro 

    È un fenomeno tristemente noto e diffuso a livello nazionale quello dei datori di lavoro che obbligano i propri dipendenti a sottoscrivere buste paga "gonfiate".

    Da oggi, però secondo Giovanni D'Agata, Componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti"con la sentenza n. 1284/11 della seconda sezione penale della Cassazione i datori che si comportano in tal modo sono passibili di condanna per il reato di estorsione di cui all'articolo 629 del codice penale, se minacciando il licenziamento, impongono la firma di buste-paga superiori alla prestazione lavorativa effettivamente espletata.

    I giudici hanno precisato che integra tale fattispecie delittuosa anche nel caso in cui i lavoratori non si siano fatti intimidire e si siano rivolti ai sindacati e al giudice del lavoro, purché la condotta del datore tenda a coartare la volontà altrui mediante la paura.

    Sulla scorta della consolidato principio giurisprudenziale (Cass. 36642/07, 16656/10, 656/09, 48868/09) secondo il quale: "integra il reato di estorsione la condotta del datore di lavoro che, approfittando della situazione del mercato di lavoro a lui favorevole per la prevalenza dell'offerta sulla domanda, costringa i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate, e più in generale condizioni di lavoro contrarie alle leggi ed ai contratti collettivi" i giudici di piazza Cavour hanno ribadito quanto sostenuto dalla Corte d'Appello di Catanzaro che nel confermare la sentenza di condanna di un datore di lavoro da parte del Tribunale di Castrovillari aveva ritenuto che "per configurarsi il reato di estorsione è sufficiente che la minaccia sia tale da incutere una coercizione dell'altrui volontà ed a nulla rileva che si verifichi un'effettiva intimidazione del soggetto passivo" escludendosi che manchi l'elemento materiale della minaccia e lo stato di soggezione del lavoratore laddove di fronte alla condotta datoriale i lavoratori si siano comunque rivolti alle organizzazioni sindacali e al giudice del lavoro.

    Lecce, 20 gennaio 2011

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA

domenica 16 gennaio 2011

Cibo avariato, abrogata legge che ne riconosce i reati

Clamoroso autogol del Governo. Cibo avariato, abrogata legge che ne riconosce i reati 

    Altro che Ministero delle Semplificazioni: quello assegnato a Calderoli appare sempre più come il Ministero delle Impunità.

    Ed infatti dopo la complicata vicenda della possibile abrogazione dei tribunali minorili con uno degli ultimi provvedimenti "taglia leggi" entrati in vigore ed annunciata qualche giorno fa dal capogruppo alla camera di Italia dei Valori, Donadi, un'altra questione è stata portata all'attenzione dei media e segnalata dal procuratore di Torino Raffaele Guariniello al ministro della salute Ferruccio Fazio, che riguarda la soppressione dei reati connessi con la messa in commercio e vendita di "cibi avariati".

    Questa volta, invero, la mannaia voluta dall'esponente con la legge numero 246 del 28 novembre 2005 che sancisce la cancellazione di tutte le disposizioni legislative anteriori all' 1 gennaio 1970, tranne quelle ritenute indispensabili alla permanenza in vigore, espressamente elencate dalla legge stessa, si è abbattuta anche sulla legge 283 del 1962 sulla tutela degli alimenti che non appare nell'elenco delle leggi salvate.

    Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti", ritiene sconcertante quest'ennesima gaffe che non si sa se dovuta ad un implicita volontà politica di abrogare reati gravi - che riguardano in primo luogo la tutela della salute pubblica e la protezione dei prodotti nostrani - che già nel 2007 erano stati oggetto di un tentativo di penalizzazione subito stoppato dalle ovvie e conseguenti polemiche.

    Pertanto, ritiene assolutamente necessario un intervento legislativo che ripristini immediatamente le norme abrogate con il ristabilimento di tutti i reati contemplati anche se siamo costretti purtroppo a rilevare che nel frattempo l'intervento della magistratura e dei Nas subirà una brutta battuta d'arresto ed i colpevoli di fatti che solo sino a qualche giorno fa oltre ad essere considerati di notevole impatto sociale erano ritenuti penalmente rilevanti, resteranno impuniti.

    Lecce,  16 gennaio 2011

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA                                                                                                          
 

venerdì 14 gennaio 2011

Il cane abbaia di notte? Ne rispone penalmente il proprietario


Il cane abbaia di notte? Per la Cassazione passibile di sanzione penale il proprietario

Ammenda di 200 euro caduno a marito e moglie che non evitano il disturbo ai vicini 

    Colpa del cane o del padrone? Per la prima sezione della Cassazione penale è colpa del padrone se il proprio cane abbia di notte molestando i vicini. La decisione che fa sorridere, secondo Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" è stata presa con la sentenza n. 715/11 secondo cui la è punibile con la contravvenzione prevista dall'articolo 659 del codice penale il proprietario dell'animale che non impedisce i rumori notturni molesti dell'animale di fronte alle ripetute proteste dei vicini di casa.

    Nel respingere il ricorso dei proprietari di due cani custoditi nel cortile della loro abitazione condannati all'ammenda di 200 euro caduno prevista dalla contravvenzione, gli ermellini hanno così motivato sulla falsariga di alcuni precedenti giurisprudenziali: "quanto ai requisiti del reato, per la sussistenza dell'elemento psicologico della contravvenzione di cui all'art. 659 c.p., attesa la natura del reato, è sufficiente la volontarietà della condotta desunta dalle obbiettive circostanze di fatto, non occorrendo, altresì, l'intenzione dell'agente di arrecare disturbo alla quiete pubblica (Cass., Sez. I, 26/10/1995, n. 11868) mentre elemento essenziale della fattispecie di reato in esame è l'idoneità del fatto ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone e non già l'effettivo disturbo alle stesse (Cass., Sez. I, 13/12/207, n. 246)".

    Lecce, 14 gennaio 2011

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA          

giovedì 13 gennaio 2011

Cassazione penale e mobbing. Sentenza shock

Cassazione penale e mobbing. Sentenza shock: integra il reato di maltrattamenti solo se il rapporto lavorativo è para-familiare  

    In attesa di una legge chiarificatrice della materia, come ha più  volte sottolineato Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" si assiste ad una serie di decisioni giurisprudenziali spesso contradditorie fra loro e ad oggi un fenomeno che milioni di lavoratori subiscono e che quindi è presente nella realtà fenomenica provocando anche effetti giuridici, quale il mobbing, appare come un contenitore elaborato dalla giurisprudenza assai fumoso ed ancora purtroppo non compiutamente definito o definibile.

    La sentenza della IV sezione della Cassazione penale n. 685/11 interviene sugli aspetti penalistici delle condotte mobbizzanti ritenendole sorprendentemente quale non suscettibili di tutela penale fatti salvi i casi-limite in cui fra datore e dipendente ci sia una consuetudine tale da rendere il loro rapporto assimilabile a quello familiare e integrare dunque il delitto di maltrattamenti in famiglia previsto dall'art. 572 del codice penale.

    Come detto, quindi, in attesa di una norma incriminatrice specifica come sollecitato già nel 2000 da una delibera del Consiglio d'Europa per i lavoratori non rimane che rivolgersi alla giustizia civile risultando possibile applicarsi la tutela prevista in particolare dall'art. 2087 del codice civile.

    Lecce, 13 gennaio 2011

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA                                                                                                          
 

mercoledì 12 gennaio 2011

Alcooltest e patente guida. Innovativa sentenza del Gdp di Galatina

 Alcooltest e patente di guida. Innovativa sentenza del Gdp di Galatina in materia di sospensione della patente e termine per l'accertamento dello stato di ebbrezza a seguito di sinistro stradale. Nullo l'accertamento se effettuato a distanza di ore dal sinistro. 

    Un'altra sentenza che farà discutere secondo Giovanni D'Agata, Componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti",  la n. 1644/10 resa il 07/10/2010 dal Giudice di Pace di Galatina avv. Antonio Sindaco in materia di alcooltest e sospensione della patente.

    Secondo il giudice salentino, infatti, l'accertamento del tasso alcoolemico a distanza di ore dal momento del sinistro inficia tutto il procedimento sanzionatorio eliminando ogni certezza giuridica allo stesso, poiché non si può essere certi che al momento del sinistro il presunto trasgressore avesse violato la norma di cui all'art. 186 del C.d.S. Tale circostanza rende quindi nulla l'ordinanza – ingiunzione di sospensione della patente di guida che trae giuridico fondamento dal suddetto accertamento.

    Ritiene il giudicante, infatti, che "non si può escludere che il superamento del tasso consentito di alcool (nel sangue)  fosse conseguenza di una condotta successiva al sinistro stesso, dato che il ricorrente, nell'arco delle tre ore intercorse (tra il sinistro e l'esame effettuato presso la struttura sanitaria competente,come da documentazione sanitaria allegata), ha avuto la possibilità di assumere liberamente sostanze alcoliche di vario genere".

 

    Lecce,  12 gennaio 2011

                                                                                                                       Giovanni D'AGATA

lunedì 10 gennaio 2011

Le normative per gli incidenti stradali

Gli incidenti stradali capitano molto spesso nel nostro paese. Questo comporta un eccessivo utilizzo dei mezzi di infortnistica stradale come i risarcimenti delle Assicurazioni che i presidi sanitari del 118 e degli ospedali in caso di traumi o di problemi sanitari di varia natura.

Le normative riguardo gli incidenti stradali sono molte e non sempre si possono conoscere tutte. Basti pensare che nell'ambito del risarcimento indicente stradale questo comporta una serie di perizie tecniche e medico legali per dettagliare al meglio i diversi tipi di danni subiti.

Questo significa, per esempio per un incidente auto con feriti, che dei professionisti hanno il compito di quantificare il danno subito sia dagli automezzi, che dalle persone, in quest'ultimo caso la visita medico legale definisce i danni subiti, che poi vengono equiparati con delle tabelle apposite che servono a quantificare il risarcimento del danno biologico.

Come si vede l'iter è molto lungo e complesso perchè quantificare un danno secondo le normative vigenti, non è una cosa molto semplice da fare. In questi casi è bene chiedere l'aiuto di professionisti del settore il cui obiettivo è quello di far valere i diritti degli assistiti. Bisogna ricordare, per chi non lo sa, che la parcella dei professionisti non viene pagata dalle vittime, ma dall'assicurazione del colpevole, secondo le normative del codice civile.

domenica 9 gennaio 2011

Mobbing e vessazioni sul luogo di lavoro. Importante indagine ISTAT

                                                                                             

    Mobbing e vessazioni sul luogo di lavoro. Importante indagine ISTAT: "Il disagio nelle relazioni lavorative"

      

    L'impegno pluriennale nella lotta contro il mobbing e le vessazioni sul luogo di lavoro di Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" oggi può contare su alcuni dati ufficiali che sicuramente contribuiranno a farci riflettere sulla necessità di un intervento (decisivo) legislativo per debellare questa piaga moderna.

    Dati ufficiali, dicevamo perché provengono dall'istituto di statistica nazionale, l'ISTAT che per la prima volta con una relazione pubblicata il 15 settembre 2010 dal titolo quantomai eloquente "Il disagio nelle relazioni lavorative" ha analizzato tale fenomeno prendendo in considerazione il biennio 2008 – 09 e quindi un periodo di tempo sufficiente per verificare che non a torto il mobbing, senza che venga mai nominato con tale appellativo nello studio dell'ente, che da anni combattiamo, costituisca una moderna patologia da debellare. Per tali ragioni riportiamo integralmente gli sconvolgenti dati sulle "vittime di vessazioni sul luogo di lavoro" (così le definisce anche l'ISTAT).

    Non può non sorprendere la cifra dei lavoratori, ben 2milioni 91mila (7,2 per cento) "che hanno dichiarato di aver subito vessazioni in ambito lavorativo nel corso della vita. Le vessazioni si sono verificate per il 5,2 per cento dei lavoratori negli ultimi tre anni e per il 3,5 per cento negli ultimi 12 mesi (Tavola 5). Analizzando le percentuali negli ultimi tre anni, i comportamenti persecutori e discriminatori riguardano, nel 91,0 per cento dei casi, la sfera della comunicazione, nel 63,9 per cento la qualità della situazione professionale, nel 64,1 per cento l'immagine sociale, nel 50,4 per cento le relazioni sociali e nel 3,9 per cento dei casi aggressioni vere e proprie (Tavola 2). Più specificatamente le vessazioni riguardano nel 79,9 per cento dei casi le critiche senza motivo e l'essere incolpati di qualsiasi problema o errore e nel 62,7 per cento le scenate e/o sfuriate. Sono tra il 34 e il 38 per cento le persone messe a lavorare in condizioni estremamente disagevoli o senza gli strumenti necessari per svolgere il proprio lavoro, calunniate, derise e oggetto di scherzi pesanti, i soggetti a cui vengono affidati temporaneamente mansioni inferiori o superiori con l'intento di umiliarli o metterli in difficoltà e le persone che vengono umiliate o prese a parolacce. Nel 30,3 per cento dei casi, invece, è stato loro impedito di ottenere incentivi, promozioni o riconoscimenti assegnati ad altri colleghi, nel 27-29 per cento esse sono state escluse volutamente da occasioni di incontro, cene sociali, riunioni di lavoro e non viene più rivolta loro la parola. Infine, nel 20,7 per cento viene loro impedito di incontrare o parlare con i colleghi con cui si trovano bene, nel 18,1 per cento costoro sono attaccati rispetto alle loro opinioni politiche e religiose, nel 12,1 per cento subiscono controlli o sanzioni disciplinari, nel 7,9 per cento offerte di tipo sessuale e nel 3,5 per cento aggressioni.

    L'analisi per genere mostra alcune differenze. Le lavoratrici subiscono più di frequente, rispetto ai propri colleghi maschi, le scenate, le critiche senza motivo, vengono più spesso umiliate, non si rivolge loro la parola e ricevono più offerte o offese di tipo sessuale. Per gli uomini le situazioni critiche riguardano più direttamente l'attività lavorativa in quanto vengono messi a lavorare più di frequente in condizioni disagevoli, non vengono dati loro gli incentivi o le promozioni che altri hanno, ricevono maggiori sanzioni o controlli disciplinari; inoltre, sono attaccati di più per le loro opinioni politiche e religiose, viene loro impedito di stare con colleghi con cui hanno buoni rapporti e sono più di frequente aggrediti fisicamente.

    Negli ultimi tre anni per la maggior parte delle vittime (84,7 per cento) l'attacco tocca più di una sfera personale; in particolare, il 28 per cento ha subito attacchi a due aree, il 27,7 per cento a tre, il 26,3 per cento a quattro e il 2,7 per cento a tutte le aree. Solo il 15,3 per cento ha subito attacchi su un unico aspetto (Tavola 3). Attacchi ad una sola area sono più frequenti per gli uomini (18,3 per cento contro 11,9 per cento delle donne), mentre gli attacchi a due aree e a tre sono più frequenti per le femmine (60,9 per cento contro 51 per cento dei maschi)" (Fonte ISTAT. Il disagio nelle relazioni lavorative. 15/09/2010).

    Lecce,  09 gennaio 2011                                                                                               

                                                                                                                        Giovanni D'AGATA         
 

mercoledì 5 gennaio 2011

"NO" ai matrimoni gay: lo ribadisce un'ordinanza di oggi della Consulta

 "NO" ai matrimoni gay: lo ribadisce un'ordinanza di oggi della Consulta che dà ragione al comune di Ferrara che non procede alle pubblicazioni. 

    L'ordinanza della Corte Costituzionale di oggi la n° 4/2011 ripropone il tema del riconoscimento e della tutela giuridica delle coppie omosessuali escludendo l'illegittimità delle norme del codice civile che impediscono di sposarsi a persone dello stesso sesso. Ne dà notizia Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti".

    Secondo i giudici non è possibile celebrare matrimoni tra persone dello stesso sesso in quanto le leggi attualmente vigenti in Italia lo escludono.

    L'illegittimità costituzionale è confermata da una serie di norme del codice civile che impediscono le nozze gay (gli articoli incriminati erano: 93, 96, 98, 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis e 231).

    Ha fatto bene, insomma, l'ufficiale dello Stato civile del Comune di Ferrara a rifiutarsi di procedere alla pubblicazione di matrimonio richiesta dalle parti private.

    La Consulta conferma la linea affermata nella sentenza 138/10 e nell'ordinanza 276/10. Ritenendo suprefluo sollevare la questione di legittimità con riferimento ai parametri individuati negli articoli 3 e 29 della Costituzione: rispetto al principio di eguaglianza l'Alta corte osserva che le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio; l'articolo 29, poi, si riferisce alla nozione di matrimonio definita dal codice civile come unione tra persone di sesso diverso e questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica.

    Nel promuovere il giudizio di legittimità il Tribunale rimettente sottolinea il rapido cambiamento dei costumi sociali avvenuto negli ultimi anni e l'affermarsi, accanto alle unioni tradizionali, di altre forme di convivenza che - seppure minoritarie - aspirano comunque a una tutela; una protezione che, tuttavia, l'ordinamento giuridico al momento non consente: la Consulta ribadisce l'interpretazione dell'articolo 29 della Costituzione secondo cui «la diversità di sesso è elemento essenziale nel nostro ordinamento per poter qualificare l'istituto del matrimonio».

    La Consulta interviene su di un tema delicato sul quale senza alcun dubbio occorre un intervento improcrastinabile del legislatore che sappia cogliere l'evoluzione della società italiana.  

    Lecce,  05 gennaio 2011                                                                                               

                                                                                                                        Giovanni D'AGATA    

"Bamboccioni": a favore nuova sentenza della Cassazione

 Nuova sentenza della Cassazione in favore dei  cosiddetti "bamboccioni". L'ex marito è obbligato a mantenere il figlio maggiorenne precario e non economicamente indipendente anche se questi non convive più con la madre 

    Una nuova decisione che farà discutere in favore dei cosiddetti "bamboccioni", così Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" sulla sentenza n. 18 del 3 gennaio 2010 secondo cui l'ex moglie ha diritto all'assegno di mantenimento per il figlio maggiorenne, precario, anche se questo vive da un'altra parte purché non sia economicamente indipendente.

    Nel caso di specie la prima sezione civile della Suprema Corte ha respinto il ricorso di un imprenditore che era stato condannato prima dal Tribunale di Savona e poi dalla Corte d'Appello di Genova a versare alla ex moglie 400 euro al mese anche per il mantenimento della figlia maggiorenne e non più convivente che svolgeva solo lavori precari.

    Sull'obbligo del mantenimento della figlia, gli ermellini hanno sostenuto che "la valutazione del giudice di merito, in ordine alla precarietà e modestia delle attività lavorative svolte dalla figlia, costituisce motivazione adeguata del rigetto della domanda di riduzione dell'assegno".

    Lecce,  05 gennaio 2011                                                                                               

                                                                                                                        Giovanni D'AGATA         

Privacy: esporre i debiti dei condomini negli spazi comuni ne costituisce violazione

  Privacy: esporre i debiti dei condomini negli spazi comuni ne costituisce violazione

    Il condominio deve risarcire i danni 

    Anche ai condomini tocca adeguarsi in materia di privacy, ed il principio espresso dalla sentenza n. 186 resa in data di ieri 4 gennaio 2011 della seconda sezione civile della Cassazione non fa una grinza secondo Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti": poiché secondo i giudici di legittimità costituisce un illecito affiggere sulle bacheche presenti negli spazi condominiali "le posizioni di debito" di inquilini e proprietari.

    Con la suddetta decisione, infatti, la Suprema Corte ha accolto il ricorso di un condomino del napoletano che aveva chiesto di essere risarcito dal condominio per violazione della privacy dopo l'affissione nell'androne del palazzo dei debiti che questo non aveva ancora saldato.

    Nel caso di specie il proprietario di un immobile all'interno di un condominio aveva citato per danni l'amministratore perché in uno spazio comune erano stati affissi i dati relativi alla sua posizione debitoria. Sia il Tribunale civile di Napoli che la Corte d'Appello ne avevano rigettato le richieste .

    I giudici di piazza Cavour investiti a loro volta della vicenda hanno cassato con rinvio la sentenza della corte d'appello accogliendo il ricorso ritenendo prevalenti le esigenze di privacy dei singoli condomini rispetto a quelle di efficienza dell'amministrazione condominiale con ciò riconoscendo anche il diritto al risarcimento del danno per illiceità del comportamento tenuto quale fonte di responsabilità civile.

    Per questo il giudice del rinvio dovrà attenersi al principio secondo cui "la disciplina del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, prescrivendo che il trattamento dei dati personali avvenga nell'osservanza dei principi di proporzionalità e di non eccedenza rispetto agli scopi per cui i dati stessi sono raccolti, non consente che gli spazi condominiali, aperti all'accesso a terzi estranei al condominio, possano essere utilizzati per la comunicazione di dati personali riferibili al singolo condomino".

    Peraltro gli ermellini ritengono che "fermo il diritto di ciascun condomino di conoscere, anche, anche su propria iniziativa, gli inadempimenti altrui nei confronti della collettività condominiale - l'affissione nella bacheca dell'androne condominiale, da parte dell'amministratore, dell'informazione concernente le posizioni di debito del singolo partecipante al condominio, risolvendosi nella messa a disposizione di quel dato in favore di una serie indeterminata di persone estranee, costituisce un'indebita diffusione, come tale illecita e fonte di responsabilità civile, ai sensi degli artt. 11 e 15 del codice".

    Lecce,  05 gennaio 2011                                                                                               

                                                                                                                        Giovanni D'AGATA       

martedì 4 gennaio 2011

Lavoro: bando allo stress! Dal 1° Gennaio 2011


                                                                                                                                         

    Circolare del Ministero del Lavoro: Dal 1 Gennaio 2011 al bando lo "stress" da lavoro

    Quanti lavoratori si ammalano di "stress"? Si perché lo stress da lavoro può essere considerato una malattia professionale al pari di tante patologie connesse all'ambiente lavorativo, anche perché come è noto sul il datore di lavoro incombono obblighi ben specifici derivanti dalla legge e dai regolamenti e quindi di monitorare eventuali situazioni che possono arrecare danno alla salute del dipendente.

    Una recentissima circolare del Ministero del Lavoro Dipartimento Generale della Tutela delle condizioni di lavoro del 18/11/2010 in attuazione del "Testo unico sulla salute e la sicurezza nel lavoro" ha infatti stabilito una serie di linee guida che obbligheranno i datori di lavoro a verificare per attenuarli fino ad eliminarli tutti i fattori di rischio: dagli orari, ai turni, alla carriera, alla precarietà e finanche agli attriti tra colleghi.

    Anche se, secondo Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico Nazionale "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti", la circolare non aggiunge nulla di nuovo alla legislazione in materia se non ulteriori obblighi di valutazione dei fattori che possono determinare lo stress e di opportuni interventi tesi a rimuovere tali elementi, poiché come detto, il datore di lavoro soggiaceva e soggiace comunque ad una serie di doveri, non sempre rispettati, derivanti dalla legge a partire dall'art. 2087 del codice civile che impone la tutela dell'integrità psicofisica del lavoratore e della sua dignità morale oltre a normative ancora più specifiche fino a quella penalistica applicabile a partire dal reato di lesioni, lesioni colpose o maltrattamenti nel caso in cui sia dimostrabile che lo stress sia una patologia conseguente al luogo di lavoro ed alla mancata predisposizione delle idonee misure per rimuovere i fattori di rischio da parte del datore.

    Quindi dal 1 Gennaio 2011, tutti i datori di lavoro pubblici o privati, avranno l'obbligo di ottemperare alle disposizioni di legge emanate nel 2008, che in realtà dovevano già essere in vigore dal 1 agosto scorso, ma una precedente circolare ministeriale aveva dato proroga per il 31 dicembre 2010, indicando l'obbligo di avviare la procedura di valutazione del rischio stress: il datore di lavoro doveva monitorare i propri dipendenti scegliendo un campione da intervistare per valutare le situazioni di rischio.

    Come detto la circolare esplica le varie fasi e le linee guida che nell'intenzione del governo serviranno ad eliminare i fattori di rischio – stress, ove presenti: innanzitutto, la lettera del Ministero parte dalla definizione dello "stress lavoro-correlato". Sempre secondo la nota ministeriale, la valutazione avverrà in due fasi, la prima, obbligatoria, servirà a rilevare "indicatori oggettivi e verificabili" di vario tipo, dall'indice di infortuni alle "specifiche e frequenti lamentele formalizzate da parte dei lavoratori", dai turni ai "conflitti interpersonali al lavoro", dalla corrispondenza tra le competenze dei lavoratori e ciò che viene richiesto loro, all'"evoluzione e sviluppo di carriera".

    Qualora non dovessero emergere fattori di rischio, il datore di lavoro dovrà solo segnalarlo in un apposito documento di valutazione del rischio e prevedere comunque un piano di monitoraggio: al contrario, se risultassero sussistere elementi in grado di causare stress, si passa alla seconda fase, cioè all'adozione di "opportuni interventi correttivi" e se la situazione non dovesse migliorare, alla "valutazione approfondita" attraverso "questionari, focus group e interviste semi-strutturate".

    Lecce,  04 gennaio 2011                                                                                               

                                                                                                                        Giovanni D'AGATA       

         


lunedì 3 gennaio 2011

Processi lumaca e diritto all' equa riparazione: lo Stato ha l'obbligo d'indennizzare entro sessanta giorni le vittime della giustizia lenta

"Processi – lumaca" e diritto all'equa riparazione: lo Stato ha l'obbligo d'indennizzare entro sessanta giorni le vittime della giustizia lenta ed il decreto della Corte d'appello costituisce valido titolo per l'esecuzione nel giudizio di ottemperanza contro la P.A.  

    Non passa giorno che non si legga una condanna dello Stato italiano da parte della Corte di Giustizia europea per la lentezza di un numero troppo elevato di processi anche perché spesso i cittadini dopo aver ottenuto parzialmente giustizia attraverso la "legge Pinto" che ha previsto la possibilità dell'equa riparazione nel caso in cui si è stati lesi dalle lungaggini del processo, riescono ad ottenere le somme riconosciute a titolo d'indennizzo solo dopo ulteriori travagli giurisdizionali.

    Ecco perché in data odierna Giovanni D'Agata, componente del Dipartimento Tematico "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" segnala la sentenza n. 9541/10 della quarta sezione del Consiglio di Stato che stabilisce un importante principio di diritto secondo cui è ben ammissibile il giudizio di ottemperanza promosso contro l'Amministrazione dal cittadino che non ha ancora ottenuto il pagamento dell'equa riparazione disposta dalla Corte d'Appello in base all'articolo 3 della legge 89/2001 meglio nota come "legge Pinto" contro l'irragionevole durata dal processo.

    I giudici amministrativi hanno ritenuto che il decreto di condanna a carico dello Stato fondato sulla suddetta legge contro la lentezza della Giustizia costituisce un provvedimento che ha natura decisoria in materia di diritti soggettivi e, dunque, assume efficacia di giudicato, costituendo, quindi un valido titolo nel giudizio di ottemperanza contro l'Amministrazione per ottenere l'esecuzione della condanna al pagamento della somma di denaro disposta dal giudice. Tale rimedio risulta esperibile in modo non soltanto alternativo ma anche congiunto al processo di esecuzione davanti al giudice civile, fermo restando che è impossibile ottenere due volte il pagamento della stessa somma.

    I giudici di Palazzo Spada nel caso di specie hanno accolto i ricorsi dei cittadini per l'ottemperanza respingendo le doglianze della P.A. che aveva ritenuto di avere comunque attivato tre delle tredici procedure di pagamento in questione anche perché, sempre secondo i giudici, solo il versamento effettivo dell'importo liquidato estingue il debito dello Stato: per adempiere l'Amministrazione ha sessanta giorni di tempo che decorrono dalla ricezione della comunicazione in via amministrativa oppure dalla data, se precedente, della notifica della stessa sentenza del Consiglio di Stato.

    Lo "Sportello dei Diritti" rimane a disposizione di tutti i cittadini vittime delle lungaggini processuali che spesso sono fonti di ulteriori danni che comunque il legislatore ha ritenuto indennizzabili.

    Lecce,  03 gennaio 2011                                                                                               

                                                                                                                        Giovanni D'AGATA       

         

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