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sabato 22 dicembre 2012

È discriminatorio il bando per il concorso per infermieri, che impone il requisito della cittadinanza comunitaria

Immigrazione ed eguaglianza nell'accesso alle professioni. È discriminatorio il bando per il concorso per infermieri, che impone il requisito della cittadinanza comunitaria. Il giudice del lavoro di Milano obbliga le Asl a riaprire i termini per consentire la partecipazione alle selezioni dei candidati extra UE regolarmente soggiornanti

 

 

È una bella notizia quella della sentenza del tribunale di Milano in materia d'immigrazione ed uguaglianza nell'accesso alle professioni, ma invita a far riflettere anche sullo stato del livello di discriminazioni cui sono sottoposti gli stranieri non comunitari ma regolarmente soggiornanti. Così Giovanni D'Agata, fondatore dello "Sportello dei Diritti" nel commentare la  decisione della corte di merito del capoluogo lombardo che ha ritenuto discriminatorio il comportamento di due Asl che hanno bandito il concorso per infermieri e operatori socio-sanitari indicando come requisito la cittadinanza italiana o di un altro Stato membro dell'Unione europea.

Secondo il giudice non è più possibile reiterare il divieto di accesso per nazionalità in alcuni settori della sanità pubblica.

In tal senso, giova precisare che il Nostro Paese ha recepito la convenzione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), rendendo così inapplicabile la legislazione interna confliggente.

E così non può non ritenersi discriminatorio nei confronti degli stranieri regolarmente soggiornanti il requisito imposto dai due enti relativamente al bando per l'accesso a posti di lavoro a tempo indeterminato.

In conseguenza di tanto, il giudice del lavoro ha ordinato alle Asl di riaprire i termini per la presentazione delle domande di ammissione alla prove selettive ed il provvedimento dev'essere  pubblicato sul sito internet dell'azienda sanitaria.

 




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Redazione del CorrieredelWeb.it


giovedì 20 dicembre 2012

Giustizia: il 40% delle cause civili è targato Giudice di pace


 

Giustizia: il 40 per cento delle cause civili è targato Giudice di pace. Flussi crescenti in entrata nelle Corti d'Appello. Italiani continuano ad avere scarsa fiducia nell'amministrazione della giustizia uno dei problemi di cui soffre il sistema italiano che continua ad allontanarsi dalle migliori pratiche adottate nei paesi europei.

 

 

Arrivano dall'Istat a seguito della  pubblicazione dell'annuario statistico italiano i dati sullo stato della giustizia in Italia che dimostrano la sfiducia degli italiani nel sistema giudiziario.

Un dato rilevante che emerge è relativo ai processi civili di primo grado che risultano essere attivati per una cifra prossima al 40 %, nel solo 2010, innanzi al giudice di pace.

Per quanto riguarda il trend, per questi procedimenti, sia sopravvenuti sia pendenti, è da rilevare una lieve flessione, rispettivamente dell'1,5 e dell'1 per cento, e un aumento dell'1,4 per cento di quelli conclusi, ma a parere di Giovanni D'Agata, fondatore dello "Sportello dei Diritti", la tendenza sarà verso una decrescita ancor maggiore stante l'aumento dei costi di giustizia registratosi nel corso degli anni che rende ancor più difficoltoso l'accesso ai tribunali e quindi anche ai giudici di pace.

Al  contrario, per ciò che riguarda il grado di appello presso i tribunali, si scopre un aumento delle nuove cause che segnano un +3,7 %, quelle esaurite -0,4 per cento e mentre per quelle pendenti addirittura un +15 %.

Analogamente anche per i procedimenti nelle Corti d'Appello, si rilevano aumenti sia in entrata (+ 5,3 %), sia per quelli conclusi (+ 2,7 %) che quelli rimasti pendenti sino alla fine dell'anno (+ 4 %). Sorprendentemente, ma anche a conferma di quanto accade da qualche anno, si evidenzia nel 2011 una diminuzione dei protesti, che passano da 1.450.032 a 1.385.416 (-4,5 per cento), per un ammontare totale di circa 3,7 miliardi di euro (erano quattro l'anno precedente) e un importo medio unitario di circa 2.659 euro. Ma a parere dello "Sportello dei Diritti", questo dato non vuol dire che diminuiscano le situazioni di sofferenza che invece risultano essere in aumento, ma solo che gli italiani preferiscono sempre più forme di pagamento alternative ad assegni e cambiali, quali carte di credito, pagamenti elettronici, bonifici online e così via.

Per Giovanni D'Agata, fondatore dello "Sportello dei Diritti", anche dalla fotografia che scaturisce dai numeri sulla giustizia italiana, arriva la conferma di una tra le più arretrate d'Europa a causa dell'eccessiva durata dei procedimenti giudiziari ed al mediocre trattamento subito dai cittadini costretti a pagare sempre più per accedervi e spesso a lunghe e snervanti attese in aule d'udienza pollaio.

Tutto ciò contribuisce ad alimentare la scarsa fiducia degli italiani nel sistema giustizia per la quale, la migliore cura possibile, lo diciamo da anni come "




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Redazione del CorrieredelWeb.it


domenica 9 dicembre 2012

Contribuenti e vessati da Equitalia. Importante sentenza della Corte Costituzionale del 19 novembre 2012 sulla notifica delle cartelle esattoriali


Contribuenti e vessati da Equitalia. Importante sentenza della Corte Costituzionale del 19 novembre 2012 sulla notifica delle cartelle esattoriali a soggetti risultati irreperibili. Il commento dell'avvocato Villani

 

Lo "Sportello dei Diritti", da sempre attento ai diritti dei contribuenti, ritiene opportuno riportare all'attenzione, una significativa e recentissima sentenza della Corte Costituzionale, la n. 258 del 19 novembre scorso, sfuggita ai più, sulla notificazione delle cartelle esattoriali ed in particolare nel non raro caso di notifica per irreperibilità del soggetto destinatario, attraverso un pregevole ed importante commento del tributarista avvocato Maurizio Villani che ripercorre, attraverso un ampio excursus, la materia della notificazione di tali atti in caso di irreperibilità del contribuente.

Di seguito, Giovanni D'Agata, fondatore dello "Sportello dei Diritti", che condivide pienamente l'assunto secondo cui l'intervento della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittima la procedura specifica per la notifica di cartelle esattoriali, prevista in casi di irreperibilità, che era estremamente penalizzante per il contribuente destinatario dell'atto è da apprezzare non solo perché parifica le modalità di notificazione sia per gli accertamenti che per le cartelle esattoriali ma, soprattutto, perché non limita il diritto di difesa del contribuente, consentendogli una maggiore possibilità di conoscenza degli atti, nel rispetto soprattutto dei principi dello Statuto del contribuente (art. 6, comma 1, della Legge 27 luglio 2000 n. 212).

La diversità della disciplina sussistente prima dell'intervento della Corte Costituzionale di una medesima situazione (notificazione a soggetto "relativamente irreperibile") non è apparsa alla Consulta riconducibile ad alcuna ragionevole ratio, con violazione dell'art. 3 della Costituzione.

 

Notifica delle cartelle esattoriali in caso di irreperibilità del contribuente

 

La Corte Costituzionale, con l'importante e condivisibile sentenza n. 258 del 19/11/2012, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del terzo comma (corrispondente all'attualmente vigente quarto comma) dell'art. 26 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), nella parte in cui stabilisce che la notificazione della cartella di pagamento "Nei casi previsti dall'art. 140 del codice di procedura civile….si esegue con le modalità stabilite dall'art. 60 del DPR 29 settembre 1973, n. 600", anziché "Nei casi in cui nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi sia abitazione, ufficio o azienda del destinatario….si esegue con le modalità stabilite dall'art. 60, primo comma, alinea e lettera e), del DPR 29 settembre, n. 600".

Per comprendere l'importanza della suddetta sentenza,




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Redazione del CorrieredelWeb.it


mercoledì 28 novembre 2012

Se il pedone cade nella buca durante la festa paesana, il Comune deve risarcirgli i danni

La responsabilità per danni da "insidia" da parte degli enti secondo le molteplici decisioni della giurisprudenza, specie quelle più recenti per Giovanni D'Agata, fondatore dello "Sportello dei Diritti", sta assumendo sempre più un carattere essenzialmente oggettivo, tant'è che con un'ulteriore ed interessante decisione la sentenza 19154 del 6 novembre 2012 la Suprema Corte ha ritenuto obbligato un comune al risarcimento dei danni patiti da un pedone che era caduto nella buca durante la festa nella piazza del paese.

Con la sentenza in questione gli ermellini hanno ritenuto valide le determinazione dei giudici di merito che avevano condannato il Comune al risarcimento dei danni causati a un bambino che era caduto a causa di una profonda buca determinata dalla pessima manutenzione della piazza, durante i festeggiamenti per il Capodanno.

I giudici della terza sezione civile hanno precisato in tal senso che «la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia (articolo 2051 Cc) prescinde dall'accertamento del carattere colposo dell'attività o del comportamento del custode (in questo caso il Comune, nda) e presenta una natura oggettiva, necessitando del mero rapporto eziologico tra la cosa e l'evento verificatosi».

In tal senso, i giudici del Palazzaccio hanno ribadito che la verifica di tale responsabilità prescinde anche dall'accertamento della pericolosità della cosa e sussiste in relazione a tutti i danni cagionati, eccettuato il caso di evento fortuito. «Evento che si verifica nei seguenti casi: quando il dissesto si manifesta in modo del tutto improvviso e imprevedibile, per cui l'attività di controllo e la diligenza dell'ente non garantiscono un tempestivo intervento oppure quando il danneggiato sia stato particolarmente disattento e imprudente».

Per tali ragioni, in tutti gli altri casi, sussiste sempre la responsabilità dell'ente proprietario o concessionario del bene demaniale che, in quanto "custode", è obbligato a sorvegliarlo, modificarne le condizioni di fruibilità ed evitare che altri possano apportare cambiamenti.

 




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lunedì 26 novembre 2012

Molestie e sms. Il giovane magliese multato con 50 euro dal Tribunale per l'sms ritenuto offensivo

 

 

Molestie e sms. Il giovane magliese multato con 50 euro dal Tribunale per l'sms ritenuto offensivo ma la Cassazione rinvia per un nuovo esame del caso

 

Ferisce più la penna che la spada: un proverbio ritornato di moda con l'avvento delle nuove tecnologie che hanno visto sostituire la classica biro e il taccuino con gli sms, i messaggi di posta elettronica ed i social network.

È chiaro che un'offesa può costare cara, anche 50 euro, secondo le motivazioni addotte dal Tribunale di Lecce che nel febbraio 2011 aveva condannato ad una multa per molestie un giovane magliese di 26 anni reo di aver inviato alla propria ex che lo aveva da poco lasciato nell'aprile del 2008, un sms ritenuto offensivo dal giudice di merito per "petulanza" e "biasimevole motivo costituito dalla gelosia e dalla volontà di infliggere alla ex fidanzata una punizione per avere interrotto la relazione sentimentale con lui".

Il giovane ha quindi proposto ricorso in Cassazione argomentando che si trattava non di un messaggio offensivo, bensì di un semplice scherzo tra amici.

La prima sezione penale della Suprema Corte ha accolto il ricorso rinviando la causa ad altro giudice dello stesso Tribunale per un nuove esame del caso.

Gli ermellini hanno, infatti, rilevato che "Il reato di molestia o disturbo alle persone non ha natura di reato necessariamente abituale, sicchè può essere realizzato anche con una sola azione ovvero con una sola telefonata effettuata dopo la mezzanotte, ma di questo occorre dare una esaustiva motivazione, nel caso in esame del tutto omessa, anche con riferimento alle finalità di petulanza o di altro biasimevole motivo".

Una vicenda che per Giovanni D'Agata, fondatore dello "Sportello dei Diritti" può far sorridere ma deve far riflettere sull'abuso dell'utilizzo delle moderne tecnologie che in non rari casi possono essere addirittura foriere di conseguenze di natura penale.

 




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Redazione del CorrieredelWeb.it


Sono illegittime le nuove rendite catastali a Lecce

Sono illegittime le nuove rendite catastali a Lecce. Il perché dal parere dell'avvocato Villani

 

L'ennesima batosta per i cittadini leccesi arriva dall'aumento delle rendite catastali di gran parte degli immobili presenti sul territorio ricompreso nel comune capoluogo che per Giovanni D'Agata fondatore dello "Sportello dei Diritti", comporterà notevoli aggravi sia in termini patrimoniali che per il pagamento di una serie di tasse ed imposte tra cui la famigerata IMU.

Sono stati, infatti, in tanti i cittadini che recatisi recentemente presso l'Agenzia del Territorio hanno potuto appurare un aumento della rendita dei propri immobili pari al 20 % in via automatica.

L'avvocato Villani, noto tributarista del foro di Lecce, con l'autorevole e significativo parere che pubblichiamo di seguito, ritiene tali aumenti del tutto illegittimi.

Proprio per tali ragioni, ricordiamo comunque, che tutte le notifiche relative alle revisioni catastali sono impugnabili alla competente Commissione Tributaria Provinciale entro 60 giorni dalla notifica.

Se non ci sarà più di un passo indietro da parte del Comune e dell'Agenzia del Territorio, si prevedono, quindi, ricorsi a raffica presso la locale CTP per l'annullamento di tutte le revisioni effettuate nel mancato rispetto della normativa vigente.

Lecce, 25 novembre 2012

                                                                                                               Giovanni D'Agata

 

ILLEGITTIME LE NUOVE RENDITE CATASTALI A LECCE

In questi giorni, molti cittadini leccesi, nel richiedere le misure catastali, hanno scoperto presso l'Agenzia del Territorio che la rendita dei loro appartamenti è aumentata del 20%.

Oltretutto, la conferma di tale aumento è stata data dal Direttore dell'Agenzia Regionale del Territorio Fulvio Panetta.

Secondo me, la revisione automatica di aumento delle rendite catastali è totalmente illegittima perché non sono state assolutamente rispettate le particolari procedure previste dalla legge.

Infatti, il legislatore ha previsto le seguenti procedure.

1.      Il Comune può chiedere all'Agenzia del Territorio la classificazione di immobili il cui classamento risulti non aggiornato ovvero palesemente non congruo rispetto a fabbricati similari ed aventi medesime caratteristiche e l'Agenzia del Territorio procede, prioritariamente, alle operazioni di verifica degli immobili segnalati dal Comune (art. 3, comma 58, L. n. 662 del 23/12/1996).

2.      Il Comune può chiedere la revisione parziale del classamento delle unità immobiliari site in microzone comunali per le quali il rapporto tra il valore medio di mercato ed il corrispondente valore medio catastale ai fini dell'ICI si discosta significativamente dall'analogo rapporto relativo all'insieme delle microzone comunali; in questo caso, l'Agenzia del Territorio, esaminata la richiesta del Comune, attiva il procedimento revisionale (art. 1, comma 335, L. n. 311 del 30/12/2004 – Legge Finanziaria 2005).

3.      In ogni caso, per la determinazione del classamento, l'Agenzia del Territorio deve sempre rispettare la procedura che consiste nel riscontrare con sopralluogo per ogni singola unità immobiliare la destinazione ordinaria e le caratteristiche influenti sul reddito e nel collocare l'unità stessa in quella delle categorie e classi prestabilite per la zona censuaria, fatti gli opportuni confronti con le unità tipo (artt. 61-62 e 64 della L. n. 1142/1949).

4.      Il Comune, constatata la presenza di immobili di proprietà privata non dichiarati in catasto ovvero la sussistenza di situazioni di fatto non più coerenti con i classamenti catastali per intervenute variazioni edilizie, può richiedere ai titolari di diritti reali sulle unità immobiliari interessate la presentazione di atti di aggiornamento. Se i soggetti interessati non ottemperano alla richiesta entro 90 giorni dalla notificazione, l'Agenzia del Territorio provvede, con oneri a carico dell'interessato, alla iscrizione in catasto dell'immobile non accatastato ovvero alla verifica del classamento delle unità immobiliari segnalate, notificando le risultanze del classamento e la relativa rendita ( art. 1, comma 336, L. n. 311/2004 cit.).

In base alle suddette specifiche procedure, è facile constatare che il Comune di Lecce si è avvalso soltanto della possibilità di richiedere all'Agenzia del Territorio non la revisione delle tariffe catastali ma semplicemente la revisione di quello che tecnicamente viene denominato classamento.

Nonostante la specifica richiesta, l'Agenzia del Territorio di Lecce, con il riclassamento delle microzone uno e due, intende trasformare le attribuzioni che le sono consentite sul riclassamento in una vera e propria revisione automatica delle tariffe d'estimo (non autorizzata né dal Comune né dalle specifiche norme sopracitate), coinvolgendo, caso unico in Italia, il 95% del patrimonio immobiliare del territorio comunale.

In definitiva, l'Agenzia del Territorio di Lecce non può e non deve assolutamente aumentare automaticamente le rendite nella misura forfettaria del 20%, non solo perché tale procedura non è assolutamente prevista dalle sopracitate disposizioni di legge ma, soprattutto, perché l'iniziativa deve essere presa soltanto dal Comune di Lecce quando lo riterrà opportuno, alle condizioni tassativamente previste dal comma 336 della L. n. 311/2004 (citata al n. 4).

Infine, le nuove rendite producono effetto fiscale a decorrere dal 1° gennaio dell'anno successivo alla data cui riferire l'omessa presentazione della denuncia catastale, indicata nella richiesta notificata dal Comune, ovvero, in assenza della suddetta indicazione, dal 1° gennaio dell'anno di notifica della richiesta del Comune.

Tutte le notifiche relative alle revisioni catastali sono impugnabili alla competente Commissione Tributaria Provinciale entro 60 giorni dalla notifica.

Lecce, 24 novembre 2012

                                                                                              Avv. Maurizio Villani

 

 

AVV. MAURIZIO VILLANI

Avvocato Tributarista in Lecce

                                                   Patrocinante in Cassazione

www.studiotributariovillani.it - e-mail avvocato@studiotributariovillani.it

 




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Redazione del CorrieredelWeb.it


venerdì 23 novembre 2012

Scatta dal 7 dicembre l'obbligo di annotazione della carta di circolazione con il nome dell'effettivo utilizzatore del veicolo

Sarà più semplice la notifica delle multe perché il libretto dovrà contenere l'indicazione del soggetto diverso dal proprietario che utilizza per oltre un mese il mezzo. Per i rimorchi, stop alla targa ripetitrice. Prevista targa ad hoc

 

Il governo dei tecnici è sempre più il governo degli strafalcioni. Non c'è materia, infatti, nella quale la normativa o la regolamentazione introdotta dall'esecutivo Monti non crei distorsioni ai sistemi vigenti o addirittura complichi in maniera non del tutto logica la vita quotidiana dei cittadini.

Questa volta, la norma incriminata è data dall'entrata in vigore del Dpr 28 settembre 2012 n. 198 pubblicato dalla Gazzetta Ufficiale 273/12 che a partire dal 7 dicembre obbligherà gli utilizzatori di tutti i veicoli dotati di targa ad aggiornare il libretto di circolazione tutte le volte in cui sia previsto l'utilizzo del veicolo per periodi superiori a trenta giorni da parte di soggetti diversi dai proprietari, L'unica consolazione è che sono esclusi i familiari, purché conviventi.

Le prescrizioni in questione riguarderanno, quindi, sia gli enti e le società che le persone fisiche.

Per quanto concerne i primi soggetti, anche se la trasformazione societaria non dà luogo alla creazione di un nuovo soggetto giuridico distinto da quello originario, e dunque non configura l'obbligo di annotazione al Pra, gli interessati hanno comunque l'obbligo di attivarsi presso il competente ufficio del Dipartimento per i trasporti, la navigazione ed i sistemi informativi e statistici al fine di chiedere l'aggiornamento della carta di circolazione indicando la nuova denominazione.

Per quanto riguarda le persone fisiche, gli uffici in questione sono tenuti su richiesta degli interessati a provvedere alla relativa annotazione nel caso in cui abbiano la temporanea disponibilità del veicolo per periodi superiori a trenta giorni, in forza di contratti o altri atti unilaterali o a titolo di comodato ovvero in forza di un provvedimento di affidamento in custodia giudiziale in caso di comodato.

La nuova regolamentazione riguarda anche tutti i veicoli intestati a soggetti incapaci: in questo caso l'annotazione dovrà essere effettuata nei confronti del genitore esercente la potestà in caso di mezzo intestato a minore, mentre al tutore nel caso di interdetti o inabilitati.

Come detto, sono esclusi dall'obbligo soltanto i familiari conviventi a colui che è il materiale intestatario del veicolo.

Il regolamento in questione, peraltro, abolisce la cosiddetta targa ripetitrice per i rimorchi, che d'ora in poi saranno soggetti alla targatura ordinaria prevista per tutti gli altri veicoli.

Per Giovanni D'Agata, fondatore dello "Sportello dei Diritti" è chiaro che l'intento del ministero dei trasporti è quello di rendere più semplice la contestazione delle infrazioni al codice della strada agli effettivi responsabili, ma sarà davvero complicato stabilire le modalità di attuazione giacché la stessa autovettura può essere in uso a più soggetti o il libretto subire continue annotazioni, in astratto anche 12 all'anno se c'è una successione nell'utilizzo del mezzo fra più soggetti diversi dal proprietario con ciò potendosi determinare una farraginosità delle procedure che andranno sempre a danno dei cittadini anche perché le norme vigenti attribuivano la responsabilità solidale del proprietario del veicolo per le sanzioni al codice della Strada.

 




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Redazione del CorrieredelWeb.it


Danni da voli cancellati e da treni in ritardo o soppressi. Ancora importanti sentenze della Corte di Giustizia UE a favore dei viaggiatori

Il termine per agire per il risarcimento dipende dalla legislazione nazionale. Per il bagaglio smarrito dev'essere risarcito anche il compagno di viaggio e non solo il titolare del tagliando identificativo. L'utente dev'essere sempre informato dei ritardi o della soppressione indipendentemente dal gestore della rete ferroviaria.

 

Per fortuna che c'è la Corte di Giustizia a chiarire quali siano i termini ed i modi per agire a tutela dei propri diritti nella delicata materia dei trasporti dei passeggeri quando la legge ed i giudici nazionali non si uniformano al diritto vigente nell'area comune. Così Giovanni D'Agata, fondatore dello "Sportello dei Diritti" ritiene opportuno passare in rassegna tre importanti decisioni pubblicate in data odierna dalla Corte.

La prima nella causa C-139/11 riguarda il termine per agire per il risarcimento dei danni conseguenti alla cancellazione dei voli. Secondo i giudici europei il termine per avviare le azioni dirette a ottenere la liquidazione della compensazione per cancellazione del volo, prevista dal diritto comunitario, è stabilito in virtù delle normative e dei regolamenti vigenti in ciascun paese dell'Unione secondo l'istituto della prescrizione della relativa azione. Ciò in relazione al fatto che il diritto UE non ha previsto un termine unico. Tocca, quindi, alla legislazione nazionale stabilire le modalità procedurali per le azioni necessarie a garantire la tutela dei diritti per i viaggiatori lesi dalla cancellazione dei voli. Specifica la Corte, però che le procedure interne, tuttavia, hanno l'obbligo di essere conformi ai principi di effettività e di equivalenza rispetto a quelle previste dal diritto interno per situazioni analoghe. Va da sé, come già  stabilito da altre autorevoli sentenze che lo  "Sportello dei Diritti" ha già provveduto a segnalare, che la normativa europea prevede un regime autonomo di indennizzo, uniforme ed immediato, dei danni costituiti dai disagi dovuti ai ritardi ed alle cancellazioni di voli.

Un'altra interessante decisione pubblicata oggi è quella resa nella causa C-410/11, che fornisce utili dettagli su come agire in conseguenza dello smarrimento del bagaglio per colpa della compagnia aerea. Secondo la Corte di Giustizia, il viaggiatore può pretendere dal vettore un risarcimento anche per la perdita dei suoi effetti personali presenti in un bagaglio consegnato a nome di un altro viaggiatore, ad esempio un familiare. In virtù di tale principio, quindi, può ottenere un risarcimento non solo il passeggero che ha provveduto alla materiale consegna della valigia, ma anche il familiare che è salito sullo stesso volo e che ha inserito i propri effetti personali nella valigia del congiunto che risulta titolare del tagliando identificativo. Secondo un principio, anche logico, dev'essere tenuta in debita considerazione la circostanza che i passeggeri fanno parte dello stesso nucleo familiare avendo comprato i biglietti insieme o anche nel caso in cui si sono registrati nello stesso momento.

L'altra sentenza da segnalare è stata emessa nella causa C - 136/11, questa volta in tema di trasporto ferroviario. L'introduzione delle regole della libera concorrenza nelle ferrovie, accade di sovente che sulle stesse linee viaggino vettori di compagnie diverse. Per esempio in Italia Trenitalia e NTV sulla tratta Milano - Roma. Secondo la Corte di Giustizia i passeggeri dei diversi treni, devono essere sempre informati dei ritardi o della cancellazione dei convogli che costituiscono le principali coincidenze, indipendentemente dalla società ferroviaria che le garantisce. Ogni impresa, spiegano i giudici europei ha l'obbligo di comunicare, in tempo reale, informazioni relative alle principali coincidenze. Il gestore della rete, d'altra parte, è tenuto a fornire alle imprese, in modo non discriminatorio, i dati in tempo reale relativi ai treni gestiti dalle altre imprese, laddove i treni costituiscano le principali coincidenze.

 




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Redazione del CorrieredelWeb.it


sabato 17 novembre 2012

I comuni non devono fare i condoni. Le conseguenze per i cittadini e per le casse dei comuni sarebbero devastanti

 

I comuni non devono fare i condoni. Le conseguenze per i cittadini e per le casse dei comuni sarebbero devastanti. Su questa scia, la scelta del comune di Lecce. Le ragioni (di legge e giurisprudenziali) spiegate dagli avvocati Villani e Francesca Giorgia Romana Sannicandro

 

L'articolo 13 della Legge n. 289 del 27 dicembre 2002, ha previsto in maniera inequivocabile che a far data dall'entrata in vigore di tale norma, i comuni e gli altri enti locali non possano effettuare condoni. Nonostante ciò e nonostante la declaratoria di illegittimità da parte di numerose sentenze della Corte di Cassazione non da ultima l'importante sentenza n. 12679 del 30.05.2012, alcuni comuni tra cui quello di Lecce si ostinano a perseverare nella proposizione di condoni frutto di una cultura politica da prima repubblica, con l'intento di recuperare quanto più possibile, ma con la concreta possibilità, per non dire certezza, di conseguenze devastanti per i cittadini – contribuenti e per le casse comunali. Intanto perché è lecito chiedersi quanti contribuenti ne farebbero uso, poiché correrebbero il rischio di aderire ad un condono giuridicamente illegittimo, con il conseguente aggravio di spese successive (sanzioni e interessi). Ed inoltre, l'ente locale andrebbe a sballare completamente i loro bilanci prevedendo la riscossione di somme mai certe e sicuramente improbabili.

Venendo ai casi più recenti, il parere rilasciato al comune di Lecce da parte del Ministero delle Finanze, peraltro, palesemente erroneo, in quanto parere, non può rappresentare una parola definitiva sulla bontà della scelta politica e quindi amministrativa effettuata.

Dispiace solo, sottolinea Giovanni D'Agata, fondatore dello "Sportello dei Diritti", che l'arroganza degli amministratori leccesi sia tale da sentirsi così forti sino a trincerarsi dietro la debolissima valenza ai fini giustiziali di un semplice parere avente carattere amministrativo ed interno.

Per esplicare ulteriormente le ragioni che ci spingono a criticare ampiamente le procedure di tal tipo, segnaliamo di seguito l'inedito articolo a firma degli avvocati Villani Francesca Giorgia Romana Sannicandro che chiarisce in maniera puntuale perché i comuni non possono fare i condoni fiscali.

Lecce, 17 novembre 2012

                                                                                                        Giovanni D'Agata

 

I Comuni non devono fare i condoni fiscali

A) Normativa

Ai sensi dell'art. 13 della Legge n. 289 del 27 dicembre 2002, è previsto che "con riferimento




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Sterilizzazione forzata: la Corte europea di giustizia ha ancora condannato la Slovacchia per la sterilizzazione di donne rom

Sterilizzazione forzata: la Corte europea  di giustizia ha ancora condannato la Slovacchia per la sterilizzazione di donne rom

 

La Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU) ha emesso una nuova sentenza nel 2012, esattamente la terza, condannando la Slovacchia per la sterilizzazione forzata di donne rom. Tre donne rom avevano presentato una denuncia alla Corte europea nel 2004, sostenendo di essere state forzate a sterilizzarsi presso l'ospedale di Krompachy (regione di Kosice). Le due donne oggetto dell'ultimo verdetto dovranno essere risarcite per 28.500 e 27.000 euro, oltre alle spese di giudizio.

Nella decisione la corte ha nuovamente confermato che la sterilizzazione senza il consenso informato è un'ingerenza nei diritti umani fondamentali di una donna garantita dal Trattato europeo e altre leggi internazionali che la Slovacchia obbliga. La CEDU aveva già emesso due sentenze che confermano l'avvenuta sterilizzazione forzata di donne rom in Slovacchia. La prima è arrivata nel novembre 2011, la seconda nel luglio 2012. Gli indennizzi delle prime due cause sono stati di 31.000 e 30.000 euro.

Per Giovanni D'Agata, fondatore dello "Sportello dei Diritti" nella nuova Europa, il "genocidio" attuato attraverso la barbara pratica della sterilizzazione delle donne rom, grazie anche a queste sentenze sembra essere definitivamente archiviato. Anche in Italia la discriminazione verso i rom resta forte. Il pregiudizio causa ancora scuole separate, povertà allarmante, disoccupazione altissima, difficile accesso ai servizi sociali, proprio ora che con l'allargamento a Est i rom sono diventati 9 milioni, la più grande minoranza europea.

 




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Multe con autovelox automatici non possono essere elevate nei centri con meno 10mila abitanti

Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Multe con autovelox automatici non possono essere elevate nei centri con meno 10mila abitanti

 

Un recente parere del Ministero dei trasporti a mezzo di una circolare ha rilevato che non è possibile da parte dei comuni installare sistemi automatici per il controllo dell'eccesso di velocità sui tratti stradali che attraversano comuni con meno di 10mila abitanti senza il nulla osta dell'ente proprietario della strada.

In conseguenza di tale rilievo, dovrebbero considerarsi nulli tutti i verbali contestati a mezzo rilevatori di velocità automatici installatati sulle vie dei piccoli comuni senza preventiva autorizzazione da parte del soggetto proprietario della strada.

È noto, spiega Giovanni D'Agata, fondatore dello "Sportello dei Diritti", che ai sensi dell'articolo 26 comma 3 del Codice della Strada "Per  i  tratti  di  strade  statali,  regionali  o  provinciali, correnti nell'interno di centri abitati con popolazione  inferiore  a diecimila abitanti, il rilascio di concessioni e di autorizzazioni è di competenza del comune, previo nulla  osta  dell'ente  proprietario della strada".

 




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giovedì 15 novembre 2012

Multe con autovelox automatici non possono essere elevate nei centri con meno 10mila abitanti

Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Multe con autovelox automatici non possono essere elevate nei centri con meno 10mila abitanti

 

Un recente parere del Ministero dei trasporti a mezzo di una circolare ha rilevato che non è possibile da parte dei comuni installare sistemi automatici per il controllo dell'eccesso di velocità sui tratti stradali che attraversano comuni con meno di 10mila abitanti senza il nulla osta dell'ente proprietario della strada.

In conseguenza di tale rilievo, dovrebbero considerarsi nulli tutti i verbali contestati a mezzo rilevatori di velocità automatici installatati sulle vie dei piccoli comuni senza preventiva autorizzazione da parte del soggetto proprietario della strada.

È noto, spiega Giovanni D'Agata, fondatore dello "Sportello dei Diritti", che ai sensi dell'articolo 26 comma 3 del Codice della Strada "Per  i  tratti  di  strade  statali,  regionali  o  provinciali, correnti nell'interno di centri abitati con popolazione  inferiore  a diecimila abitanti, il rilascio di concessioni e di autorizzazioni è di competenza del comune, previo nulla  osta  dell'ente  proprietario della strada".

 




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Multe: stop alla decurtazione dei punti della patente in caso di ricorso al verbale


Il ricorso al verbale al codice della strada fa sospendere anche le sanzioni accessorie della sospensione e decurtazione dei punti della patente di guida.

La sospensione dell'esecutività del provvedimento opposto si estende anche alla questione dell'obbligo di comunicazione dei dati del conducente

 

 

Interessante sentenza dell'11/10/2012 del giudice di pace di Verolanuova (Brescia) dott. Carlo Grimaldi, che fa il punto sull'annosa questione del rapporto tra gli effetti del ricorso avverso la sanzione principale e le conseguenze sulle sanzioni accessorie in materia del codice della Strada.

Accade, infatti, soventemente come sottolinea Giovanni D'Agata, fondatore dello "Sportello dei Diritti" che i comandi di Polizia Stradale ai vari livelli provvedano ad emettere comunque la sanzione amministrativa pecuniaria per l'omessa comunicazione dei dati di chi era alla guida ai fini della decurtazione dei punti dalla patente di guida anche quando il proprietario dell'auto o l'obbligato in solido abbiano presentato ricorso avverso la sanzione principale, per esempio quando è stato contestato il passaggio dell'incrocio con il semaforo rosso o l'eccessiva velocità e comunque tutte le volte in cui non c'è la contestazione immediata dell'infrazione mentre è prevista la sanzione accessoria della decurtazione dei punti della patente

La sentenza in oggetto fa chiarezza sulla questione stabilendo che l'invalidazione della multa per eccesso di velocità coinvolge anche l'omessa comunicazione dei dati del conducente anche quando vi sia stata la sola sospensione della sanzione principale.

Nel caso di specie, il giudice di merito ha accolto il ricorso del proprietario del veicolo che aveva subito la contestazione per omessa comunicazione dei dati del conducente nonostante avesse già proposto ritualmente opposizione alla contestazione per eccesso di velocità che era stata accolta con sentenza che aveva annullato il provvedimento opposto.

Secondo il giudice la circostanza costituiva giustificato motivo all'omessa contestata comunicazione. In tal senso, è stato proprio la legge ha chiarire definitivamente il rapporto tra sanzione principale ed accessoria in pendenza di ricorso ed in particolare l'articolo 7, comma 4 del Decreto Legislativo 150/11 che in materia di opposizione al verbale di accertamento di violazione del codice della strada, che dispone: «L'opposizione si estende anche alle sanzioni accessorie».

Nella fattispecie, con il decreto di fissazione dell'udienza di comparizione delle parti il giudice aveva disposto la sospensione dell'esecutività del verbale. Per tali ragioni, alla sospensione del provvedimento opposto doveva conseguire anche quella alle sanzioni accessorie e, tra queste, l'obbligo di comunicazione dei dati rilevato con il verbale opposto. <




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martedì 13 novembre 2012

Multe autovelox: illegittima la multa elevata con il tutor senza la produzione delle fotografie


L'onere della prova grava sull'amministrazione durante il giudizio

 

 

Giro di vite sul tutor. La multa è illegittima senza la produzione della documentazione fotografica Lo ha confermato il Giudice di Pace di Cassino nella sentenza n. 2570 depositata il 18 gennaio 2012. Il caso riguardava una vittima del Tutor che aveva proposto ricorso avverso la sanzione ritenuta illegittima. Secondo l'automobilista la sanzione era stata elevata non a seguito di un verbale di accertamento bensì su una mera fotografia. All'udienza, poi, la Polizia Stradale rimasta contumace, non produceva la documentazione fotografica richiesta. Così il Giudice, avv. Silvia Marini, accoglieva il ricorso ricordando che " la rilevazione della velocità con un apparecchio elettronico non conferisce al successivo verbale fede privilegiata, trattandosi di circostanza alla quale l'accertatore non ha assistito personalmente, e che pertanto la pubblica amministrazione ha l'obbligo, in quanto attrice, di produrre in giudizio la fotografia ". Inoltre il giudice adito puntualizzava che " le circostanze apprese dal pubblico ufficiale a seguito di ispezione di documenti non attribuiscono al verbale alcun valore probatorio precostituito, semmai rappresentano materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice ". Pertanto il mancato deposito della fotografia, costituisce inadempimento dell'amministrazione all'onere probatorio imposto dall'art. 2697 c.c. e quindi tale omissione determina l'illegittimità della sanzione.

Per Giovanni D'Agata, fondatore dello "Sportello dei Diritti", la sentenza costituisce un duro colpo alla rilevazione elettronica delle infrazioni. Il sacrosanto principio espresso nella decisione, secondo cui dal verbale di accertamento deve emergere "adeguatamente" la circostanza dell'infrazione, conferma che in tali casi la multa dev'essere annullata.

 




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venerdì 9 novembre 2012

Danni da randagismo. Il Comune deve risarcire il centauro caduto dalla moto a causa del cane randagio

 

Il randagismo è una piaga che non sempre i comuni e le Asl affrontano con la dovuta efficacia, tanto che sono quotidiani i danni subiti da automobilisti e motociclisti in conseguenza del passaggio improvviso di cani abbandonati o nel caso dei pedoni a causa del loro morso o delle loro aggressioni.

Sono persuasive, in tal senso tutte le decisioni che attribuiscono una specifica responsabilità ai vari enti in tema di danni connessi al randagismo per determinare una lotta più convincente al fenomeno.

L'ultima che vale la pena di segnalare, sottolinea Giovanni D'Agata, fondatore dello "Sportello dei Diritti", è la sentenza n. 17118 del 12 settembre 2012 del Tribunale civile di Roma che ha liquidato al centauro caduto dalla moto a causa di un randagio la non irrilevante somma di 18mila euro a titolo di danno biologico in virtù delle tabelle per il calcolo di tale tipo di danno applicate nel suddetto tribunale.

Il principio riconosciuto dal giudice di merito sta nel fatto che comunque spetta al comune il risarcimento dei danni subiti dal motociclista caduto in seguito al passaggio di una cane randagio.

Ciò anche se vi è una responsabilità delle Asl sulla gestione del fenomeno dei randagi. L'amministrazione comunale, in tali casi, non può essere esonerata da responsabilità in virtù del principio del "neminem laedere", che la rendono responsabile dei danni conseguenti alle condotte omissive per comportamenti dovuti, che costituiscono il limite esterno alla sua attività discrezionale.

Da  ciò discende che l'ente locale deve risarcire i danni patiti da un motociclista aggredito da un cane randagio durante la marcia del mezzo, poiché l'amministrazione locale - ai sensi della legge-quadro 14 agosto 1991, n. 281 e delle relative leggi regionali in tema di animali di affezione e prevenzione del randagismo - è obbligato, in correlazione con gli altri soggetti indicati dalla legge, al rispetto del dovere di prevenzione e controllo del randagismo sul territorio di competenza.

 


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Redazione del CorrieredelWeb.it

giovedì 8 novembre 2012

Cannabis. Cassazione a Sezioni Unite mette fine alla 'caccia alle streghe': vendere semi e dare indicazioni sulla coltivazione non e' reato

Firenze, 8 novembre 2012. La vendita di semi di cannabis, in negozio e online, anche se accompagnata da indicazioni su coltivazione e resa, non costituisce reato di istigazione all'uso di stupefacenti. Questa volta a dirlo una volta per tutte è la massima autorità giudiziaria, le Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione, in merito al caso del negozio online semitalia.it che aveva portato anche all'ingiusto arresto dei suoi titolari. (1)
Accogliendo le argomentazioni difensive dell'avvocato Carlo Alberto Zaina, (2) consulente legale Aduc in materia di stupefacenti, la Cassazione ha affermato -come già numerosi altri tribunali (tra cui Bolzano, Firenze, Rovereto e Cagliari)- la liceità della vendita di semi online, vendita che non costituisce reato di istigazione, induzione o proselitismo all'uso di sostanze stupefacenti anche se accompagnata da informazioni o strumenti per la coltivazione.
Viene cosi' smontata una volta per tutte una politica del diritto penale sugli stupefacenti fondata sulla repressione dei reati d'opinione, cosi' come la vorrebbe la legge Fini-Giovanardi. Se la vendita di semi di cannabis è di per se' legale e riconosciuta tale dalla Convenzione di New York del 1967, diversi pubblici ministeri, su impulso del precedente Governo -di cui faceva parte lo stesso Giovanardi in qualità di sottosegretario con delega in materia di stupefacenti- hanno voluto proibirla indirettamente punendo i commercianti non tanto per l'attività di vendita, ma per il reato di istigazione o induzione al consumo di droghe che sottenderebbe l'attività commerciale. Una strada che si è oggi rivelata impercorribile perche' in contrasto con i principi fondamentali del diritto.
Ma le numerose pronunce giudiziarie mettono in luce anche uno degli aspetti piu' repulsivi dell'attuale politica sulle droghe. Nell'impossibilità di ridurre la domanda e l'offerta di sostanze stupefacenti, ormai certificata da quarant'anni di fallimenti della guerra alla droga che ha dato vita a un ricco mercato nero di cui beneficiano a pieno le peggiori organizzazioni criminali, la repressione si concentra sui piccoli consumatori di cannabis, sostanza infinitamente meno pericolosa di alcool e tabacco. Dal sequestro dei registri di siti di vendita come mariuana.it e Seminali sono scaturite migliaia di perquisizioni e arresti di acquirenti di semi di cannabis. Come già aveva ribadito il Tribunale di Firenze, (3) investito di un caso simile: "La verita' che non si vuol vedere e' che questi esercizi di rivendita legale di semi per collezione hanno plausibilmente quali unici estimatori proprio coloro che hanno esigenza di fare uso di marijuana rendendosi pero' indipendenti pro
 prio
dal mercato illegale della droga, e facendo cosi' in proprio a livello domestico". In altre parole, punendo condotte di per se' legali e alla luce del sole, il proibizionismo finisce ancora una volta per alimentare le grandi organizzazioni criminali e i loro traffici.
Fino a quando dovremo subire politiche cosi' irrazionali e dannose?

(1) http://avvertenze.aduc.it/censura/comunicato/cannabis+censura+vendita+semi+legale+ma_17452.php
(2) http://www.aduc.it/articolo/semi+cannabis+cassazione+sezioni+unite+non_20831.php
(3) http://www.aduc.it/generale/files/file/allegati/20100814-firenze-zaina.pdf

Pietro Yates Moretti, vicepresidente Aduc

COMUNICATO STAMPA DELL'ADUC
Associazione per i diritti degli utenti e consumatori
URL: http://www.aduc.it





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martedì 6 novembre 2012

Persecuzioni sul posto di lavoro: la vittima risarcita dei danni per le singole condotte vessatorie

Importante sentenza della Cassazione in tema di vessazioni sul lavoro. Il datore di lavoro può essere condannato al risarcimento dei danni per le singole condotte vessatorie nei confronti del dipendente che non riesce ad aggiornarsi alle nuove tecnologie anche se non viene rilevato l'unicità delle azioni qualificata come mobbing

 

Una sentenza importante in tema di risarcibilità dei danni a seguito delle condotte vessatorie del datore di lavoro la numero 18927/12, dalla sezione lavoro della Cassazione pubblicata il 5 novembre che Giovanni D'Agata, fondatore dello "Sportello dei Diritti", ritiene opportuno segnalare a tutte le vittime delle angherie datoriali, che troppo spesso si arrendono prima di cominciare le proprie battaglie perché non ritengono di riuscire ad avere giustizia.

Non è detto, a leggere la sentenza della Suprema Corte, che con tutta probabilità prende atto della difficoltà di dimostrare che la sussistenza del mobbing in tutti i casi in cui si manifesti, che se non viene rilevata la sussistenza dell'unicità delle condotte vessatorie, non si possa essere risarciti per i danni conseguenti a singoli comportamenti persecutori da parte del capo.

Secondo gli ermellini, infatti, se il mobbing lamentato dal lavoratore non sussiste, non può escludersi che il datore possa comunque essere condannato a risarcire al dipendente il danno non patrimoniale rispetto a singole condotte mortificanti, accertate in giudizio, nonostante manchi l'unicità del disegno persecutorio contro il prestatore d'opera.

Nel caso di specie, è stato accolto con rinvio alla Corte d'appello, in diversa composizione, il ricorso proposto dalla lavoratrice di una farmacia costretta ad andare in pensione prima del tempo perché anziana e perché non riusciva ad aggiornarsi alle nuove tecnologie inserite nel processo produttivo.

A seguito di tanto, la dipendente era giunta all'estremo gesto di un tentativo di suicidio, ma per i giudici tale atto era stato determinato più da una sua parossistica risposta emotiva ai problemi sul lavoro che a una effettiva condotta persecutoria dei capi e dei colleghi. La nota dolente, consisteva nel fatto che con l'introduzione del sistema informatizzato e l'assunzione di nuovi collaboratori la donna non si era più adeguata alle mansioni affidatele.

Se è pur vero tanto, hanno rilevato i giudici del Palazzaccio, la motivazione della sentenza della Corte d'appello che ha esonerato il datore da ogni obbligazione risarcitoria risulta contraddittoria. Al giudice del merito, infatti, è affidato il compito di prendere in considerazione ai fini della decisione  tutti i singoli episodi potenzialmente vessatori denunciati dal lavoratore, e ciò anche nel caso in cui non è rilevabile nei confronti del datore e degli altri subordinati l'unicità dell'intento persecutorio (conosciuta oggi come mobbing) nei confronti del prestatore d'opera che reclama il danno non patrimoniale.

Secondo la Suprema Corte tocca ai giudici investiti della questione di merito verificare l'eventuale sussistenza di condotte degradanti a carico del dipendente e le relative responsabilità riferibili al datore.

 




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domenica 4 novembre 2012

Stranieri in Italia: giro di vite contro le vessazioni e le azioni umilianti commesse da pubblici ufficiali

Condannato per abuso d'ufficio e lesioni nonchè al risarcimento danni  il poliziotto che «preleva» immotivatamente lo straniero e lo vessa in questura

 

Linea dura della Cassazione che con la sentenza 42182 del 30 ottobre 2012 ha condannato un poliziotto che, senza giusta causa, ha «prelevato» lo straniero e lo vessa e umilia in Questura. L'illegittimità della condotta configura il reato di abuso d'ufficio e di lesioni. La sesta sezione penale ha ritenuto la condotta degli agenti illecita e priva di fondamento: il possesso da parte dell'immigrato della sola fotocopia del permesso di soggiorno, non legittimava gli accertamenti in questura, tanto meno il loro comportamento violento e vessatorio. Per tali motivi i giudici di Piazza Cavour hanno confermando la sentenza di prime cure che ha respinto il ricorso contro il giudizio di colpevolezza emesso dalla Corte d'appello di Bologna che ha condannato quattro poliziotti per il reato di abuso d'ufficio e lesioni, con le pertinenti statuizioni accessorie, oltre al risarcimento del danno in favore della vittima. Nelle motivazioni della sentenza si legge in al riguardo: «ai fini della configurabilità del reato di abuso d'ufficio, sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, configurandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativa che ne legittima l'attribuzione».  Insomma, le azioni umilianti che configurano l'illegittimità della condotta degli imputati nel «prelievo abusivo» avvenuto per ragioni diverse da quelle consentite e dal fatto che la condotta di abuso d'ufficio contestata non si sia esaurita nelle condotte vessatorie ma integrata anche da condotte autonome e del tutto diverse. A questo punto, alle forze dell'ordine, non resta che pagare.

Per Giovanni D'Agata, fondatore dello "Sportello dei Diritti", il vero problema è a monte : anche il comportamento del singolo poliziotto può essere lo specchio della società in cui stanno emergendo logiche razziste suggerite in parte dalla politica.

 




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Redazione del CorrieredelWeb.it


venerdì 2 novembre 2012

Rischia grosso per assenza arbitraria il dipendente che lascia a lungo scoperto il posto per ricaricare il cellulare

Rischia grosso per assenza arbitraria il dipendente che lascia a lungo scoperto il posto per ricaricare il cellulare. Legittimo il licenziamento intimato al lavoratore che si assenta dal servizio: l'allontanamento prolungato configura l'abbandono punibile con l'estinzione del rapporto.

 

" È legittimo il licenziamento in tronco del dipendente che si allontana senza comunicarlo al superiore per esigenze fisiologiche, in questo caso per ricaricare il cellulare, impiegando oltre il tempo necessario: ciò configura l'abbandono del posto di lavoro ". Questo, in estrema sintesi, il principio sancito da una recente pronuncia del la Cassazione con la sentenza 18811 del 31 ottobre 2012. I giudici di Piazza Cavour confermando la sentenza di prime cure ha respinto il ricorso di una guardia giurata contro la decisione della Corte d'appello di Salerno che aveva ritenuto legittimo il licenziamento. Il caso ha riguardato un dipendente di una banca che per andare a comprare una ricarica del cellulare senza avvertire i superiori, ha lasciato il metal detector dell'entrata dell'istituto di credito disattivato, e, oltretutto, sfruttando più tempo del dovuto per lo svolgimento di tale operazione. Tale comportamento configura l'abbandono del posto di lavoro legittimando il licenziamento in tronco.

Nelle motivazioni della sentenza si legge in al riguardo: «A fronte del fatto che nel regolamento di servizio –- è stabilito che le guardie giurate devono svolgere il loro ordinario servizio avendo in dotazione un'arma e, nel rapporto di lavoro che si instaura tra un istituto di vigilanza e le dipendenti guardie giurate, l'autorizzazione al porto d'anni e l'approvazione del questore, sono necessarie per lo svolgimento dell'attività di guardia giurata, tanto che costituiscono il presupposto indispensabile contrattualmente previsto per la ricevibilità delle prestazioni d'opera. Ciò comporta che, all'occorrenza, le guardie giurate devono saper fare uso dell'arma in dotazione, tanto che vengono appositamente addestrate allo scopo, e intervenire con le modalità che le circostanza richiedono».

Per questo, i giudici di Piazza Cavour, sottolinea Giovanni D'Agata, fondatore dello "Sportello dei Diritti", hanno ribadito che «l'abbandono del posto di lavoro da parte di dipendente cui siano affidate mansioni di custodia e sorveglianza configura, a differenza del momentaneo allontanamento dal posto predetto, una mancanza di rilevante gravità idonea, indipendentemente dall'effettiva produzione di un danno, a fare irrimediabilmente venir meno l'elemento fiduciario nel rapporto di lavoro e a integrare la nozione di giusta causa di licenziamento, anche in difetto di corrispondente previsione del codice disciplinare, atteso che, nelle ipotesi di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il potere di recesso del datore di lavoro deriva direttamente dagli articoli 1 e 3 legge 604/66ۛ». Per tali motivi l'ex dipendente, è stato condannato anche a pagare più di 4 mila euro di spese di giudizio.

 




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martedì 30 ottobre 2012

Condannato il capoufficio che spia la posta elettronica dei dipendenti

Condannato il capoufficio che spia la posta elettronica dei dipendenti. Non può essere violato il domicilio informatico dei subordinati costituito dalla casella email qualsiasi ne sia il contenuto

 

Il capoufficio spione che legge abusivamente la posta elettronica dei propri subordinati può essere condannato penalmente. Secondo la Corte di Cassazione penale anche gli account sono tutelati dalla protezione del cosiddetto «domicilio informatico» indipendentemente dalla natura dei dati contenuti nella casella di posta elettronica.

La sentenza 42021 del 26 ottobre 2012, resa dalla quinta sezione penale della Suprema Corte - che Giovanni D'Agata, fondatore dello "Sportello dei Diritti" porta all'attenzione per censurare una prassi che continua a perpetuarsi in Italia, quella del controllo illegittimo dei dipendenti da parte dei datori – ha, infatti, ritenuto inammissibile il ricorso presentato dal responsabile di un ufficio condannato dalla Corte d'appello di Roma a quasi un anno di reclusione per essersi introdotto abusivamente nel server di posta elettronica della società violando l'accesso a caselle postali e-mail di alcuni dipendenti dell'ufficio.

La quinta sezione penale ha quindi confermato la sentenza di condanna per il reato di cui all'articolo 615 ter del codice penale, nei confronti del superiore riconosciuto titolare di conoscenze da tecnico informatico, rilevando che «l'articolo 615 ter del Cp, introdotto a seguito della legge 23 dicembre 1993, n. 547, il legislatore ha assicurato la protezione del "domicilio informatico" quale spazio ideale (ma anche fisico in cui sono contenuti i dati informatici) di pertinenza della persona, a esso estendendo la tutela della riservatezza della sfera individuale, quale bene anche costituzionalmente protetto. Tuttavia l'articolo 615 ter Cp non si limita a tutelare solamente i contenuti personalissimi dei dati raccolti nei sistemi informatici protetti, ma offre una tutela più ampia che si concreta nello "jus excludendi alios", quale che sia il contenuto dei dati racchiusi in esso, purché attinente alla sfera di pensiero o all'attività, lavorativa o non, dell'utente; con la conseguenza che la tutela della legge si estende anche agli aspetti economico-patrimoniali dei dati, sia che titolare dello "jus excludendi" sia persona fisica, persona giuridica, privata o pubblica, o altro ente».

Per dirla in altre parole l'introduzione abusiva nella posta elettronica altrui e l'uso illecito del relativo account è un reato riconosciuto dall'ordinamento penalmente punibile.

Nel caso in questione nel dichiarare inammissibile il ricorso, gli ermellini hanno confermato la condanna a quasi un anno di carcere ed un'ammenda di mille euro.

 




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Redazione del CorrieredelWeb.it


lunedì 29 ottobre 2012

Cassazione: nuovo stop a Equitalia

Il fermo amministrativo è illegittimo se non è stata notificata la cartella di pagamento

 

Sono molteplici le decisioni delle corti tributarie ma anche della Cassazione che hanno censurato il comportamento di Equitalia quando non segue con correttezza le procedure d'esazione.

L'ennesima pronuncia, la n. 18380 del 26 ottobre 2012 emessa dalla sezione tributaria della Suprema Corte, nel rigettare il ricorso avverso due precedenti pronunce favorevoli nei confronti di un contribuente da parte della commissione tributaria provinciale di Milano e di quella regionale della Lombardia, ha bacchettato nuovamente l'agente per la riscossione.

Nei due precedenti delle corti di merito era stato rilevato che il fermo amministrativo, non poteva essere iscritto (ed è quindi da ritenersi illegittimo), perché non preceduto dalla notifica della cartella di pagamento al contribuente che costituisce il titolo per poter procedere anche per l'adozione di qualsiasi provvedimento cautelare.

È questo, sostanzialmente il principio di diritto cui deve attenersi la società esattrice per poter procedere con l'imposizione delle cosiddette ganasce fiscali. A sostenerlo è Giovanni D'Agata, fondatore dello "Sportello dei Diritti", che rileva come in moltissimi casi sul territorio nazionale tale assunto non sia sempre rispettato ed anzi sono molteplici le segnalazioni di provvedimenti, a dir poco illegittimi, di tal tipo.

Nel caso di specie, i giudici del Palazzaccio nel rigettare il ricorso di Equitalia avverso la decisione della Ctr della Lombardia hanno precisato che «nel concreto, il quesito di diritto formulato dalla ricorrente Equitalia si limita a postulare che il preavviso di fermo sia comunque legittimo, seppure non preceduto dalla notifica della cartella di pagamento, mentre non tiene conto del fatto che il nucleo logico della decisione impugnata consiste nel rilievo che l'omessa dimostrazione dell'avvenuta notifica delle cartelle implica l'accertamento della decadenza dal diritto alla riscossione, con implicita conseguenza della insussistenza di qualsivoglia titolo per l'adozione di provvedimenti di genere cautelare».

 




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Redazione del CorrieredelWeb.it


martedì 23 ottobre 2012

Sentenza per il terremoto dell'Aquila. Tra procurato e mancato allarme

Roma, 23 Ottobre 2012.  L'art. 658 del Codice penale recita "Chiunque, annunziando disastri, infortuni o pericoli inesistenti, suscita allarme presso l'autorita', o presso enti o persone che esercitano un pubblico servizio, e' punito con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda da euro 10 a euro 516." Ne sa qualcosa l'ex ministro della Protezione Civile, Giuseppe Zamberletti, che, nel lontano 1985, sulla base delle dichiarazioni dell'Istituto Nazionale di Geofisica che prevedeva una «scossa pericolosa,  ordino' lo stato d'allerta per dieci Comuni della Garfagnana (Toscana): scuole chiuse per due giorni, case vecchie o in cattivo stato evacuate. Centomila persone abbandonarono le proprie abitazioni, ma il terremoto non arrivo' e l'ex ministro Zamberletti fini' sotto inchiesta per procurato allarme. Ieri, il Tribunale dell'Aquila ha condannato, per omicidio colposo, gli scienziati della Commissione Grandi Rischi per aver sottovalutato il pericolo e fornito informazioni "imprecise e incomplete" sul sisma che colpi' il capoluogo abruzzese il 6 aprile del 2009 e provoco' 309 morti. Per capire meglio si dovra' aspettare il dispositivo delle sentenza, nel frattempo qualche considerazione va fatta. Se manca l'allarme si viene processati, se si procura l'allarme si viene processati. Che dire? Che le previsioni di qualunque tipo, anche quelle meteo, sono tali, cioe' ipotesi e non hanno valore scientifico. Lo scienziato si trova, dunque, tra l'incudine e il martello. Difficile posizione. Vogliamo ricordare che negli ultimi 44 anni i terremoti sono costati 162 miliardi, oltre alle vite umane, al dolore e alla disperazione dei sopravvissuti. Servono 40 miliardi per mettere in sicurezza l'Italia, ad iniziare dalla Calabria che ha la piu' alta probabilita' di evento sismico. Un buon investimento che dovrebbe sostituire i soldi previsti per l'inutile Ponte di Messina.

Primo Mastrantoni, segretario Aduc

COMUNICATO STAMPA DELL'ADUC
Associazione per i diritti degli utenti e consumatori
URL: http://www.aduc.it





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domenica 21 ottobre 2012

Stop della cassazione al medico che dirotta i pazienti operati in ospedale nel suo studio privato

Stop della cassazione al medico che dirotta i pazienti operati in ospedale nel suo studio privato

Dalla sentenza e dalle indagini dei NAS emerge che i camici bianchi non hanno alcun interesse a visitare nel pubblico, quando nel privato sono pagati dai 100 euro in su per un quarto d'ora di accertamento. E più si allungano le code in corsia, più «clienti» arrivano.

Abuso d'ufficio per il medico che all'atto delle dimissioni dall'ospedale di alcuni pazienti, contravvenendo alle regole della disciplina intramuraria e al codice deontologico, li invita esplicitamente a recarsi per la visita di controllo post operatoria presso il suo studio professionale. Lo ha deciso la Corte di Cassazione, con sentenza n. 40824 del 17 ottobre 2012, condannando un medico che eseguiva delle visite a pagamento senza informare i pazienti stessi circa la possibilità di ottenere la medesima prestazione presso il presidio ospedaliero senza ulteriori spese, in quanto detta attività era già remunerata dalla tariffa, omnicomprensiva, corrisposta per il ricovero e l'intervento chirurgico.

Nella sentenza gli ermellini hanno sottolineato che "il medico, con la visita post operatoria in ambito privato, viene a percepire, un ingiusto vantaggio (da doppia retribuzione), con danno del paziente (che viene a versare un emolumento già compreso nel ticket), quale conseguenza della dolosa e funzionale carenza di informazione, al paziente stesso, della possibilità di ottenere il medesimo risultato terapeutico in sede ospedaliera: alternativa questa favorevole alla 'persona operata', ma da essa non potuta esercitare per doloso difetto di informazione, in un contesto in cui il pubblico ufficiale ha violato manifestamente il dovere di astensione, indirizzando le parti nel suo studio privato per una prestazione che doveva essere contrattualmente praticata in ambito ospedaliero".

Inoltre si legge nella sentenza, al medico compete "l'obbligo di concludere l'intervento professionale nella sede naturale, ospedaliera, e senza ulteriori esborsi economici non dovuti, a meno che sia lo stesso paziente che opti, "re cognita", per tale soluzione, volendo che l'autore della visita post operatoria sia lo stesso medico che ha praticato l'intervento. (...) Né può sostenersi che si è trattato nella specie di una scelta volontaria dei pazienti posto che non risulta affatto che gli stessi siano stati informati del loro diritto di essere visitati, senza ulteriori aggravi economici, all'interno della struttura pubblica nella quale era stato praticato l'intervento chirurgico".

Per Giovanni D'Agata, fondatore dello "Sportello dei Diritti",. chi sbaglia deve pagare. È questo il nudo e crudo significato della esemplare sentenza:  la vera sorpresa è la conferma dei sospetti dei malati e cioè che i medici preferiscono ricevere privatamente. Per risolvere il problema, bisognerebbe eliminare l'intramoenia e imporre regole più ferree all'intramoenia allargata, ora fonte di numerosi comportamenti illeciti. Le accuse delle associazioni dei malati diventano certezza, la «colpa» delle liste d'attesa eterne è dei medici. O meglio della libera professione che, in regime di intramoenia (dentro l'ospedale), intramoenia allargata (in studi collegati perchè in ospedale non c'è posto) o extramoenia (in ambulatori indipendenti), svolgono parallelamente a quella pubblica e con la benedizione dell'Usl di appartenenza. Dalla sentenza e dalle indagini dei




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