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mercoledì 31 luglio 2013

Processo Tributario. Ammesso il ricorso cumulativo

Nota di commento dell'avvocato Maurizio Villani dopo la sentenza 836/04/13 della Commissione Tributaria Provinciale di Lecce nella causa collettiva avente r.g. 2724/13

 

Dopo aver preannunciato ieri la pubblicazione della sentenza numero 836/04/13 della quarta sezione della Commissione Tributaria Provinciale di Lecce nella causa collettiva avente r.g. 2724/13 che ha accolto integralmente il ricorso presentato collettivamente dai primi 25 contribuenti leccesi assistiti dall'avvocato Francesco D'Agata in relazione alla questione dell'aggiornamento degli estimi catastali a Lecce da parte dell'Agenzia del Territorio su input dell'amministrazione locale, oggi Giovanni D'Agata, presidente dello "Sportello dei Diritti", riporta un'interessante nota di commento dell'avvocato Maurizio Villani che è stato uno strenuo sostenitore della cumulabilità dei ricorsi nella vicenda che ha toccato la ribalta nazionale per comprendere la validità di questo strumento processuale anche per, usando le parole del tributarista, "una difesa tributaria più lineare, incisiva e meno dispendiosa dal punto di vista economico" per i contribuenti che saranno assistiti d'ora innanzi dallo "Sportello dei Diritti" per analoghe questioni.

Lecce, 31 luglio 2013                                                                                                                                                                                            

Giovanni D'AGATA

Processo Tributario - Ammesso il ricorso cumulativo. Nota di commento

 

La Commissione Tributaria Provinciale di Lecce– Sez. 4 -, con l'interessante sentenza n. 836/04/13 del 18/07/2013, depositata il 29/07/2013, ha totalmente accolto il ricorso cumulativo di 25 contribuenti, presentato dall'Avv. Francesco D'Agata dello Sportello dei Diritti, annullando per difetto di  motivazione gli accertamenti catastali dell'Agenzia del Territorio di Lecce.

La sentenza è importante perché, prima in Italia, ha ritenuto validamente proposto un ricorso cumulativo presentato da un organismo associativo di tutela dei cittadini-contribuenti, utilizzando la particolare procedura processuale dell'art. 104 del codice di procedura civile, secondo il quale:

"Contro la stessa parte possono proporsi nel medesimo processo più domande anche non altrimenti connesse, purchè sia osservata la norma dell'art. 10, secondo comma".

La Corte di Cassazione ha più volte riconosciuto la validità del ricorso cumulativo, con le seguenti sentenze:

-         n. 7191/04;

-         n. 309/06;

-         n. 13916/06 delle Sezioni Unite;

-         n.3692 del 16/02/2009 delle Sezioni Unite;

-         n. 21955 del 27/10/2010;

-         n. 4490 del 22/02/2013 della Sezione Tributaria.

Secondo la Corte di Cassazione, in aggiunta alle ragioni di economia processuale che sorreggono la pacifica ammissibilità del ricorso uno actu avverso più sentenze emesse nel medesimo procedimento, va osservato che l'ammissibilità è consentita quando i diversi procedimenti non solo attengono al medesimo rapporto giuridico di imposta, pur riguardando situazioni giuridiche formalmente distinte, in quanto si riferiscono a diverse annualità, ma soprattutto quando dipendono per intero dalla soluzione di una identica questione di diritto comune a tutte le cause ed in ipotesi suscettibile persino a dare vita ad un giudicato rilevabile d'ufficio a tutte le cause relative al medesimo rapporto di imposta.

In definitiva, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ritiene pacificamente ammissibile la proposizione di un unico ricorso cumulativo avverso più atti distinti di accertamento, dovendo ritenersi applicabile sempre nel processo tributario l'art. 104 c.p.c., il quale consente la proposizione contro la stessa parte, e quindi la trattazione unitaria, di una pluralità di domande, anche non connesse tra loro, con risultato peraltro analogo a quello ottenuto nel caso di riunione di processi anche soltanto soggettivamente connessi (art. 29 D.Lgs. n. 546/1992).

In altri termini, non si rinviene all'interno del processo tributario alcuna incompatibilità con l'istituto del litisconsorzio improprio (art. 103 c.p.c.), non ostando alla legittimità della proposizione del ricorso collettivo la previsione espressa del litisconsorzio necessario.

Infatti, la previsione espressa del litisconsorzio necessario nel processo tributario non implica, in virtù del richiamo operato dall'art. 1 del D.Lgs. n. 546/1992, quale automatica conseguenza, l'inammissibilità dell'applicazione del litisconsorzio improprio, così come il principio sancito dall'art. 18 D.Lgs n. 546/1992, secondo cui "ogni atto autonomamente impugnabile può essere impugnato solo per vizi propri", non appare violato dalla mera materiale unicità del ricorso con il quale più soggetti impugnino atti autonomamente impugnabili per vizi propri, deducendo a conforto identiche questioni.

Infine, sempre secondo i principi consolidati della Corte di Cassazione, non appaiono ostative alla soluzione adottata le eventuali circostanze fattuali che potrebbero, parzialmente, diversificare le posizioni dei singoli ricorrenti, soccorrendo, in tal caso, e nella ricorrenza dei presupposti di legge, la separazione delle cause espressamente prevista dall'art. 103, comma 2, c.p.c..

I giudici leccesi hanno ben applicato i suddetti principi più volte espressi dalla Corte di Cassazione e ciò, in futuro, comporterà per i contribuenti, assistiti dallo Sportello dei Diritti, una difesa tributaria più lineare, incisiva e meno dispendiosa dal punto di vista economico.

Lecce, 30 luglio 2013

                                                                                  Avv. Maurizio Villani

 

      AVV. MAURIZIO VILLANI

          Avvocato Tributarista in Lecce

                                          Patrocinante in Cassazione

www.studiotributariovillani.it - e-mail avvocato@studiotributariovillani.it

 




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Redazione del CorrieredelWeb.it

Sicurezza stradale: alla guida con le infradito non è vietato ma attenzione ai pericoli

 

La quotidianità ci porta a non prestare la giusta attenzione a quelle piccole, almeno in apparenza, cose, che invece se correttamente osservate possono servire a ridurre i rischi per noi stessi e per la collettività.

In tal senso, rileva Giovanni D'Agata, presidente dello "Sportello dei Diritti", una delle questioni più dibattute fra gli esperti della sicurezza alla guida e non solo, è l'utilizzo di calzature apparentemente più comode e leggere come ciabatte, zoccoli e infradito che nella stagione estiva prendono il posto, già con i primi caldi, delle scarpe invernali meno confortevoli, ma almeno in apparenza più sicure.

E non si tratta di una questione che riguarda solo le donne, anche se un'indagine realizzata da Motori.it e DireDonna, ha stabilito che nel periodo estivo ben il 53% delle esponenti del gentil sesso si mette al volante della propria auto indossando infradito o modelli simili, ma anche molti uomini ormai utilizzano con frequenza questo tipo di calzature, specie quando si dirigono verso le spiagge e le località balneari.

Si tratta di un fenomeno di costume che, peraltro, non risulta vietato almeno a partire dal 1993, ossia con l'entrata in vigore del Nuovo Codice della Strada, che ha consentito la possibilità di mettersi al volante con calzature non chiuse sul retro o addirittura a piedi nudi, a patto però che ciò non comprometta la sicurezza necessaria. In tal senso, soggiunge proprio l'articolo 140 del Codice della Strada che regolamenta elasticamente la materia stabilendo che "gli utenti della strada devono comportarsi in modo da non costituire pericolo o intralcio per la circolazione ed in modo che sia in ogni caso salvaguardata la sicurezza stradale", senza quindi prescrivere alcuna precisa dotazione e lasciando, dunque, un certo margine di libertà all'automobilista.

Ciò non vuol dire che ci si può mettere alla  guida come si vuole senza tenere conto che una scarpa più comoda, ma meno modaiola possa essere determinante per evitare rischi per sé e per gli altri. Se per esempio, si rimane coinvolti in un sinistro la mancanza di scarpe chiuse potrebbe essere considerata come un elemento di concorsualità in termini di responsabilità, con effetti negativi sui risarcimenti da parte delle assicurazioni e con un minimo rischio di essere sanzionati dalle forze di polizia stradale per violazione del citato articolo 140 per aver concorso o causato un sinistro a causa della non corretta "dotazione" d'abbigliamento.

Nonostante questi rischi, secondo le statistiche, le donne continuano a calzare tacchi a spillo vertiginosi, ma anche ciabatte alla guida e in quest'ultima tendenza superano di gran lunga i maschi. Dall'indagine evidenziata, infatti, gli uomini preferiscono guidare con sneakers o scarpe chiuse per poi cambiarsi e indossare le infradito raggiunta la destinazione.

 




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Redazione del CorrieredelWeb.it

lunedì 29 luglio 2013

La Cassazione esclude la notifica diretta per posta degli atti fiscali

La notifica a mezzo posta e l'Ordinanza della Suprema Corte n. 13278 del 28 maggio 2013. Quale sarà la disciplina applicabile alle notificazioni a mezzo posta di atti tributari dopo questa decisione che si pone in contrasto con altri precedenti?

 

Solo gli attenti osservatori del diritto, in particolare di quello tributario, si sono accorti dei possibili sconvolgenti effetti sul sistema delle notifiche degli atti fiscali dopo l'ordinanza n. 13278 del 28 maggio 2013 che di fatto ha posto seri dubbi sulla legittimità delle notifiche a mezzo posta di tali atti senza che il procedimento sia effettuato da un agente all'uopo abilitato, con possibili annullamenti a raffica, per buona pace di tanti contribuenti che effettivamente non hanno potuto avere piena contezza degli atti notificatigli, di tutti quelli che non seguono correttamente l'iter dettato dalla normativa per come interpretata dalla Suprema Corte.

Nell'articolo di seguito scritto a due mani dagli avvocati  Maurizio Villani e Idalisa Lamorgese, che per Giovanni D'Agata presidente e fondatore dello "Sportello dei Diritti",  vale la pena leggere con attenzione, viene esplicata in dettaglio la decisione in questione che lascia più di un dubbio ed in particolare: quale sarà la disciplina applicabile alle notificazioni a mezzo posta di atti tributari alla luce di questa interpretazione della normativa?

 

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La Corte di Cassazione, con l'Ordinanza n. 13278 del 28 maggio 2013, ha stabilito che è nulla la notifica degli atti fiscali nel caso in cui l'avviso lasciato dall'agente postale, che ne dà notizia con raccomandata con avviso di ricevimento, non riporta il numero civico presso il quale avrebbe cercato il contribuente.

Infatti, la Sesta Sezione Civile della Suprema Corte, con l'Ordinanza di cui sopra, ha accolto il ricorso di un contribuente che chiedeva la cassazione della sentenza pronunciata dalla Commissione Tributaria Regionale di Palermo, con cui, confermando la decisione di primo grado, veniva respinto il proprio atto di appello nei confronti dell'Agenzia delle Entrate.

La controversia è scaturita da una cartella di pagamento, emessa sulla base di provvedimento di irrogazione di sanzioni, di cui il contribuente ha chiesto l'annullamento eccependo un vizio di notifica, consistito nel mancato rispetto di tutti gli adempimenti richiesti dalla legge e, segnatamente, dall'articolo 3 della Legge n. 892/1982 concernente la notificazione di atti a mezzo posta. Infatti il messo notificatore aveva omesso di annotare quale fosse il numero civico dello stabile presso il quale aveva cercato il destinatario dell'atto, anche per colpa dell'Ufficio Finanziario che non aveva compiutamente indicato l'indirizzo del contribuente.

Più in particolare, i Giudici di appello si erano limitati a verificare che l'agente postale, alla cui attività andava riconosciuta efficacia probatoria fino a querela di falso, avesse curato i prescritti adempimenti, dando atto di avere "immesso avviso cassetta ingresso dello stabile in indirizzo".

In sede di Cassazione il ricorrente lamentava, invece, la mancata ricezione dell'atto e riteneva che le carenze di notifica fossero da imputare sia all'originario errore omissivo dell'Ufficio che non aveva compiutamente indicato l'indirizzo omettendo il numero civico, che ad un vizio del procedimento di notifica: l'agente postale, infatti, non aveva annotato nell'avviso di ricevimento il numero civico dello stabile nel quale si era concretamente introdotto.

La decisione veniva, pertanto, impugnata per violazione e falsa applicazione dell' art. 3 della L. 890/1982, nonché dell'art. 6 della L. 212/2000.

Ebbene, diversamente dai giudici del merito, la Suprema Corte ha accolto il ricorso del contribuente, rinviando la causa per nuovo esame ad altra sezione della CTR della Sicilia. Gli Ermellini hanno infatti attribuito estrema importanza alla completezza dell'avviso lasciato dall'agente delle poste al momento della notifica dell'atto tributario. Sul punto i supremi giudici hanno ribadito che, nel caso di notifica a mezzo posta e di irreperibilità relativa del destinatario, le modalità di notifica devono essere rigorosamente osservate e menzionate nell'avviso di ricevimento, deducendone che lì dove, come nel caso, dalla sola annotazione dell'agente postale riportata nell'avviso, non possa ricavarsi l'avvenuto puntuale espletamento di tutte le prescritte formalità, e segnatamente il luogo di immissione dell'avviso, la notifica non può ritenersi correttamente effettuata.

L' ordinanza in commento si segnala, paradossalmente, più per quello che lascia ipotizzare che per quello che, esplicitamente, afferma.

In particolare, offre, lo spunto per una importante riflessione (cfr. M. Bruzzone "La notifica a mezzo posta è inesistente se manca il civico nell'avviso di ricevimento" in Corriere Tributario 29/2013) che merita di essere posta in evidenza in questo articolo.

Orbene, è opportuno prima di tutto segnalare che non vi è dubbio che quella delle notifiche a mezzo posta degli atti tributari è materia estremamente complessa e delicata, come dimostra la copiosa giurisprudenza di merito e di legittimità che negli ultimi anni si è pronunciata sull'argomento.

La Suprema Corte nell'ordinanza n. 13278 del 28 maggio 2013, è tornata a pronunciarsi sulla notificazione a mezzo posta di atti tributari.

Preme in questa sede evidenziare che la soluzione interpretativa prospettata dagli Ermellini, è di estrema importanza e presuppone l'applicazione alle notifiche di atti tributari a mezzo posta della Legge n. 890 del 20 novembre 1982 "Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari", ponendosi, in tal modo, in netto contrasto con la tesi, sostenuta in altre pronunce della stessa Corte, che, al contrario, ammette la spedizione diretta a mezzo posta di provvedimenti impositivi ed esattivi, senza l'intervento di un agente notificatore abilitato e senza la compilazione della relata di notifica, assumendo l'inapplicabilità né dell'art. 149 c.p.c., né, di conseguenza, delle più rigorose formalità prescritte dalla legge n. 890/1982 e l'operatività della disciplina regolamentare sull'ordinaria posta raccomandata, contenuta nel Decreto del Ministero delle comunicazioni del 9 aprile 2001 (cfr. Sentenza Cassazione n. 15746 del 19 settembre 2012).

Orbene, alla luce di quanto sopra esposto, sebbene in realtà le sentenze dei giudici di legittimità non abbiano specificatamente affrontato l'eccezione dell'inesistenza della notifica per posta diretta perché effettuata da un soggetto non abilitato dalla legge, è evidente che viene a configurarsi un chiaro contrasto interpretativo: quale sarà la disciplina applicabile alle notificazioni a mezzo posta di atti tributari?

 




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Redazione del CorrieredelWeb.it

venerdì 26 luglio 2013

Mobbing. Spetta la reintegra e il danno morale per il lavoratore che reagisce anche violentemente contro il capo che lo mobbizza


Mobbing. Spetta la reintegra e il danno morale per il lavoratore che reagisce anche violentemente contro il capo che lo mobbizza. Dev'essere ritenuto sproporzionato e  quindi illegittimo il licenziamento seguito all'alterco determinato da vessazioni sistematiche.

 

Non solo non può essere licenziato il dipendente che aggredisce il superiore minacciandolo con una sbarra metallica, dopo aver subìto sistematiche e continue vessazioni tali ledere la capacità di autocontrollo, ma dev'essere anche risarcito per il danno morale.

A stabilirlo la sezione lavoro della Corte di Cassazione con la significativa sentenza 18093/13, pubblicata il 25 luglio che, come rileva Giovanni D'Agata presidente e fondatore dello "Sportello dei Diritti", ha preso in esame il fatto, non raro sui luoghi di lavoro nostrani, del capo che mobbizza il sottoposto mentre l'aggressione del dipendente avviene a seguito di una sistematica condotta di bossing che l'azienda conosce e non impedisce.

Nel caso in questione preso in esame dalla Suprema Corte che ha confermato la sentenza della Corte d'Appello di Torino nella quale erano state decisive le testimonianze dei colleghi del licenziato acquisite in sede penale sulle continue vessazioni alle quali l'incolpato risulta sottoposto dal suo responsabile, tant'è che era stato ritenuto correttamente sproporzionato il provvedimento espulsivo adottato nei confronti del dipendente "incensurato", che si ispira al principio di buona fede nell'esecuzione del contratto di lavoro. Per di più, quindi, oltre alla reintegra, sul posto va anche dato atto del riconoscimento del danno morale per le violenze subite dal lavoratore per cui l'azienda è responsabile ai sensi dell'art. 2087 del codice civile anche se la sentenza d'appello è stata cassata con rinvio alla stessa corte di merito in diversa composizione per quantificare l'aliunde perceptum del lavoratore che va detratto dal risarcimento.

Se viene accolto come unico motivo di ricorso dell'azienda la questione di quanto percepito dal lavoratore nelle more del giudizio, infatti, per il resto i giudici di legittimità hanno confermato integralmente la sentenza d'appello che aveva ordinato la reintegra e il risarcimento al dipendente per il licenziamento illegittimo oltre che la rifusione del danno morale liquidato in via equitativa. Dev'essere specificato che a causa del mobbing verso il sottoposto, il superiore era stato già condannato in sede penale in entrambi i gradi di giudizio per il reato di maltrattamenti di cui all'articolo 570 del codice penale. È evidente, quindi, il quadro probatorio che era emerso in sede penale a seguito delle testimonianze degli altri dipendenti con il malcapitato licenziato descritto come un elemento preparato e gioviale, tecnicamente preparato ed esperto nel suo lavoro. Ed il capo, forse proprio per tali ragioni, l'aveva preso di mira con continue mortificazioni professionali e umane, oltre offese gratuite. In poche parole il "boss" aveva reso la vita impossibile al sottoposto che un giorno aveva reagito (per disperazione) brandendo una sbarra. Il licenziamento, quindi, si era rivelato alla stregua di un provvedimento eccessivo e sproporzionato se si fosse tenuto in debito conto i torti subiti dall'incolpato "non potendosi ritenere la reazione avuta …costituisse elemento di per sè idoneo e sufficiente ad inficiare irrimediabilmente il rapporto fiduciario da tempo esistente …Ciò nell'ottica della correttezza e della buona fede alla luce delle quali andava letta ed interpretata la dinamica di un rapporto contrattuale quale quello in esame".

Non vi sono dubbi,  quindi, neanche per la Suprema Corte che nel caso di specie si possa configurare il mobbing nella condotta del datore di fronte a una persistente persecuzione e emarginazione del dipendente: il prestatore d'opera si ritrova leso nella sua sfera personale e lavorativa. Il tutto in violazione dell'articolo 2087 Cc che impone al datore di garantire la sicurezza sul lavoro. E nessun dubbio che sia lo stesso datore a dover rispondere anche in termini di risarcimento per il bossing posto in essere dal suo dipendente con incarico di responsabilità: a nulla vale il tardivo intervento di pacificazione da parte dell'azienda. Nella fattispecie, non può far finta di niente dato che il lavoratore denuncia il mobbing del capo anche nelle giustificazioni presentate nell'ambito del procedimento disciplinare.

 




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Redazione del CorrieredelWeb.it

lunedì 22 luglio 2013

Defibrillatori obbligatori per le società amatoriali che praticano sport

Giro di vite  nelle attività non agonistiche, studenti e anziani compresi in termini di controlli medici per chi fa attività motoria a livello non agonistico

 

Sport amatoriale più sicuro. I defibrillatori saranno obbligatori per le società oltre gli esami medici  necessari per  gli uomini fino a 55 anni e le donne fino ai 65. In vigore il dm che disciplina le linee guida per i "salvavita"per le società amatoriali, che dovranno dotarsi di defibrillatori automatici. Lo prevede il decreto del ministero della Salute pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale 169/13. L'adozione prevista dal'articolo 7 comma 11 del decreto salute e sviluppo del 2012 indica gli adempimenti necessari per i soggetti non tesserati alle federazioni sportive nazionali, alle discipline associate, agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal Coni, che praticano attività amatoriale ovvero non regolamentata da organismi sportivi e non occasionale, che devono sottoporsi a controlli medici periodici secondo indicazioni precise. Gli atleti, senza evidenti patologie e fattori di rischio, potranno essere visitati da un qualunque medico abilitato alla professione e il certificato avrà valenza biennale. Mentre i soggetti che riportano almeno due delle seguenti condizioni (età superiore ai 55 anni per gli uomini e ai 65 per le donne, ipertensione arteriosa, elevata pressione arteriosa differenziale nell'anziano, l'essere fumatori, ipercolesteloremia, ipertrigliceridemia, glicemia alterata a digiuno o ridotta tolleranza ai carboidrati o diabete di tipo II compensato, obesità addominale, familiarità per patologie cardiovascolari, altri fattori di rischio a giudizio del medico) dovranno essere visitati necessariamente da un medico di medicina generale, un pediatra di libera scelta o un medico dello sport, che dovranno effettuale un elettrocardiogramma a riposo e eventualmente altri esami necessario secondo il giudizio clinico. Il certificato dovrà essere rinnovato ogni anno;i soggetti con patologie croniche conclamate diagnosticate dovranno ricorrere a un medico di medicina generale, un pediatra di libera scelta, un medico dello sport o allo specialista di branca, che effettuerà esami e consulenze specifiche e rilascerà a proprio giudizio un certificato annuale o a valenza anche inferiore all'anno. Il certificato andrà esibito all'atto di iscrizione o di avvio delle attività all'incaricato della struttura o del luogo dove si svolge l'attività.

Non sono invece tenuti all'obbligo della certificazione le persone che svolgono attività amatoriale occasionale o saltuario, chi la svolge in forma autonoma e al di fuori di contesti organizzati, i praticanti di alcune attività con ridotto impegno cardiovascolare, come le bocce (escluse le bocce in volo), biliardo, golf, pesca sportiva di superficie, caccia sportiva, sport di tiro, ginnastica per anziani, "gruppi cammino", e chi pratica attività ricreative come ad esempio il ballo. Gli alunni che svolgono attività fisico-sportive organizzate dalle scuole nell'ambito delle attività parascolastiche, i partecipanti ai giochi sportivi studenteschi nelle fasi precedenti a quella nazionale e le persone che svolgono attività organizzate dal Coni o da società affiliate alle Federazioni o agli Enti di promozione sportiva che non siano considerati atleti agonisti devono sottoporsi a un controllo medico annuale effettuato da un medico di medicina generale, un pediatra di libera scelta o un medico dello sport. La visita dovrà prevedere la misurazione della pressione arteriosa e un elettrocardiogramma a riposo. Regole più stringenti sono previste per chi partecipa ad attività ad elevato impegno cardiovascolare come manifestazioni podistiche oltre i 20 km o le gran fondo di ciclismo, nuoto o sci: in questo caso verranno effettuati accertamenti supplementari.

Le società sportive dilettantistiche e quelle sportive professionistiche dovranno dotarsi di defibrillatori semiautomatici. Sono escluse le società dilettantistiche che svolgono attività a ridotto impegno cardiocircolatorio. Le società dilettantistiche hanno trenta mesi di tempo per adeguarsi, quelle professionistiche sei. Gli oneri sono a carico delle società, ma queste possono associarsi se operano nello stesso impianto sportivo, oppure possono accordarsi con i gestori degli impianti perché siano questi a farsene carico.

Per Giovanni D'Agata presidente e fondatore dello "Sportello dei Diritti", l'adozione obbligatoria di  un defibrillatore a portata di mano può salvare la vita. Ed ora nececessaria una legge dello Stato che sancisca l'obbligatorietà di corsi autorizzati di primo intervento riconosciuti a livello nazionale e la presenza di dispositivi di defibrillazione nei luoghi aperti al pubblico che senza alcun dubbio limiterà i decessi conseguenti ad arresto cardiaco e contribuirà a ridurre il gap tra il Nostro Paese e gli altri stati industrializzati dove da anni sono state approntate stabili strategie per garantire il pronto intervento nei luoghi della vita quotidiana.

 




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Redazione del CorrieredelWeb.it

Multe seriale annullate all'automobilista che entra nella ztl per accompagnare la madre malata

Il giudice di pace annulla i verbali notificati in serie al proprietario dell'autovettura che era transitato più volte nella ztl per accompagnare la madre malata sprovvisto di autorizzazione. Con un solo ricorso annullati stop a 46 verbali

È rilevante ai fini dell'invalidità dell'accertamento lo stato di necessità dimostrato al conducente del veicolo per le patologie della stretta congiunta

 

Con la sentenza 250/13, pubblicata dal Giudice di Pace di Padova sono stati annullati i verbali  notificati in serie al proprietario dell'autovettura che aveva transitato sprovvisto di autorizzazione nella ztl per accompagnare la madre malata. Per il giudice onorario la patologia di cui è affetta la stretta congiunta del trasgressore gli consente di ottenere l'annullamento di ben quarantasei verbali opposizioni con una sola opposizione.

Tutte multe contestate dalla locale polizia municipale per la violazione dell'articolo 7, comma 14, del codice della strada. Ma l'automobilista presenta un unico ricorso corredandolo della documentazione medica da cui si evince che la madre è affetta da una patologia che non le consente di compiere tragitti a piedi, e da questo assunto scaturisce la necessità di trasportarla in auto nelle immediate vicinanze dall'abitazione. Peraltro, nel periodo in cui viene sanzionato a raffica, la conducente accompagna la madre dal padre ricoverato presso un centro di assistenza: per il giudice si evince uno stato di necessità tale da "scriminare" il trasgressore, stante anche la «buona fede» di costei.

Nel caso in questione, peraltro, rileva Giovanni D'Agata presidente e fondatore dello "Sportello dei Diritti", risulta giuridicamente assai rilevante che nonostante l'eccezione dell'amministrazione comunale di Padova dell'impossibilità di impugnare con una sola opposizione ex articolo 22 della legge 689/81 tutti i verbali contestatile, il giudice abbia applicato i principi dell'orientamento costante della giurisprudenza di legittimità in materia che ha ritenuto più volte ammissibile la proposizione di un'unica opposizione da parte dell'ingiunto contro una molteplicità di atti irrogativi di sanzioni amministrative per violazioni della stessa disposizioni di legge.

 




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Redazione del CorrieredelWeb.it

domenica 21 luglio 2013

L'immigrato ha diritto al "ricongiungimento familiare" anche se non ha presentato l'apposita istanza

L'immigrato ha diritto al "ricongiungimento familiare" anche se non ha presentato l'apposita istanza. Per la Corte Costituzionale basta il possesso dei requisiti previsti dalla legge e la presenza dei parenti in Italia. Ciò anche se lo straniero è stato condannato.

 

Una decisione importante che rende giustizia a migliaia di cittadini immigrati che sono in attesa di un permesso di soggiorno in Italia anche se hanno parenti regolarmente soggiornanti. Ad evidenziarlo Giovanni D'Agata presidente e fondatore dello "Sportello dei Diritti" nel commentare la sentenza della Corte Costituzionale numero 202 del 18 luglio 2013, che ha stabilito il principio secondo cui il ricongiungimento familiare può essere concesso all'immigrato anche se non ha presentato l'apposita istanza e non ha quindi azionato il suo diritto. Con la statuizione della Consulta, per ottenere il ricongiungimento, basterà d'ora innanzi e senza possibili interpretazioni divergenti da parte delle Questure d'Italia, il possesso dei requisiti previsti dalla legge.

Con la sentenza in questione, infatti, i giudici di Palazzo della Consulta hanno dichiarato l'illegittimità parziale dell'art. 5, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286 (Disposizioni sull'ingresso, il soggiorno e l'allontanamento dal territorio dello Stato), nella parte in cui prevede che la valutazione discrezionale in esso stabilita si applichi solo allo straniero che «ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare» o al «familiare ricongiunto», e non anche allo straniero «che abbia legami familiari nel territorio dello Stato».

I giudici costituzionali, hanno ritenuto parzialmente fondato il ricorso presentato dal Tar del Veneto nell'ambito di un procedimento amministrativo inerente il diniego del rinnovo del permesso di soggiorno di un extracomunitario condannato in via non definitiva per reati in materia di stupefacenti. Lo straniero, aveva evidenziato il tribunale amministrativo nel sollevare la questione, si trovava nelle condizioni «sostanziali» per ottenere sia il ricongiungimento familiare (padre di tre figli minori residenti in Italia, di cui uno di madre italiana e gli altri di una straniera con permesso di lungo soggiorno), sia il permesso CE di lungo soggiorno, ma non ne aveva mai fatto richiesta e per questo non rientrava nelle «eccezioni» previste dal legislatore per i casi di «automatismo ostativo» del rinnovo del permesso di soggiorno.

La Corte Costituzionale, nel dichiarare l'illegittimità parziale della norma, ha sostenuto esplicitamente che «la disposizione impugnata delimita l'ambito di applicazione della tutela rafforzata, che permette di superare l'automatismo solo nei confronti dei soggetti che hanno fatto ingresso nel territorio in virtù di un formale provvedimento di ricongiungimento familiare, determinando così una irragionevole disparità di trattamento rispetto a chi, pur versando nelle condizioni sostanziali per ottenerlo, non abbia formulato istanza in tal senso». Una «simile restrizione - si legge in motivazione - viola l'articolo 3 della Costituzione e reca un irragionevole pregiudizio ai rapporti familiari, che dovrebbero ricevere una protezione privilegiata ai sensi degli articolo 29, 30 e 31 della Costituzione e che la Repubblica è vincolata a sostenere, anche con specifiche agevolazioni e provvidenze, in base alle suddette previsioni costituzionali».

Ed ancora, «la tutela della famiglia e dei minori assicurata dalla Costituzione implica che ogni decisione sul rilascio o sul rinnovo del permesso di soggiorno di chi abbia legami familiari in Italia debba fondarsi su un'attenta ponderazione della pericolosità concreta e attuale dello straniero condannato, senza che il permesso di soggiorno possa essere negato automaticamente, in forza del solo rilievo della subita condanna per determinati reati».

 




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Redazione del CorrieredelWeb.it


mercoledì 17 luglio 2013

Basta con gli abusi delle compagnie telefoniche. Rimborsato il consumatore che si è visto levare l'autoricarica a seguito della scadenza introdotta dalla compagnia telefonica

Deve essere rimborsato il consumatore che si è visto levare l'autoricarica a seguito della scadenza introdotta dalla compagnia telefonica. Il gestore non può stabilire unilateralmente modifiche al contratto con condizioni economiche peggiorative per l'utente

 

Basta con gli abusi delle compagnie telefoniche che modificano unilateralmente ed in senso peggiorativo le condizioni contrattuali a carico dei propri utenti.

Ad evidenziarlo Giovanni D'Agata presidente e fondatore dello "Sportello dei Diritti", che porta all'attenzione la significativa sentenza del Tribunale di Foggia, la numero 2218/2013 che ha stabilito il diritto al rimborso per l'autoricarica scaduta per l'utente che ha perso il suo credito a seguito della scadenza introdotta dal gestore di telefonia. Ciò in virtù di quanto statuito dalla legge che vieta l'introduzione di condizioni che peggiorano la posizione del consumatore. Tanto vale di più con la normativa "Bersani" del 2007 sulle liberalizzazioni.

Nel caso preso in esame dal tribunale di capitanata che ha accolto la domanda di un consumatore  che aveva chiesto di essere rimborsato di 2.300 euro per il credito corrispondente a una ricarica maturata, ma poi fatta scadere dal gestore in virtù di una modifica contrattuale inserita senza che questi avesse presto il proprio consenso in merito.

Sottolinea il giudice monocratico che in materia di telecomunicazioni, la possibilità di introduzione di vincoli di durata a eventuali offerte promozionali comportanti prezzi più favorevoli per il consumatore, prevista dall'art. 1 del decreto Bersani (D.l. 7/2007), deve essere intesa nel senso che l'operatore può decidere, per il futuro, di incidere sulle modalità di fruizione di crediti acquisiti attraverso offerte promozionali, non anche per quelli acquisiti antecedentemente, definiti al sorgere del rapporto illimitato.

Se però  il togato ha riconosciuto il danno patrimoniale ha tuttavia rigettato, nella fattispecie quello danno non patrimoniale per il quale il consumatore aveva proposto apposita richiesta di risarcimento. In proposito, sulla scia di un precedente di legittimità (in particolare la famosa sentenza della Cassazione n. 26972/2008 pronunciata a Sezioni Unite) secondo cui "il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate. In particolare, non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata danno esistenziale  perché attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell'atipicità, sia pure attraverso l'individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario né è necessitata dall'interpretazione costituzionale dell'art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione. Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico , danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno. È compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore - uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione".

Alla compagnia telefonica non resta che pagare il danno patrimoniale e le spese di lite che seguono la sua soccombenza.

 




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Redazione del CorrieredelWeb.it


martedì 16 luglio 2013

Scarso rendimento sul posto di lavoro. Non può essere licenziato il dipendente che non raggiunge gli obiettivi

Non può essere licenziato il dipendente che non raggiunge gli obiettivi anche se esigibili dal datore di lavoro. Non è sufficiente per il recesso del lavoratore la prestazione lavorativa inferiore ai minimi contrattuali. Solo se l'azienda dimostra un grave inadempimento degli obblighi si può passare al licenziamento

 

Fantozzi alla riscossa! È il titolo di una celeberrima commedia all'italiana, ma anche di ciò che può accadere al dipendente accusato di scarso rendimento se viene licenziato dopo la lettura della sentenza della Cassazione numero17371/13, pubblicata il 16 luglio. La sezione lavoro della Suprema Corte, rileva Giovanni D'Agata presidente e fondatore dello "Sportello dei Diritti", ha infatti ribadito il principio secondo cui il lavoratore non può essere licenziato per scarso rendimento se non raggiunge gli obiettivi previsti, anche se i risultati risultano eventualmente esigibili da parte del datore. Ai fini della validità del recesso, al contrario, l'azienda deve comunque dimostrare un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali; anche perché il dipendente resta pur sempre obbligato solo a un facere nei confronti del datore.

Nel caso di specie, è stato rigettato il ricorso con condanna alle spese di causa dell'amministrazione provinciale della provincia autonoma di Bolzano avverso la sentenza della corte d'appello dello stesso capoluogo, con conseguente conferma del mantenimento del posto di lavoro per un tecnico informatico, nonostante il capo dell'ufficio abbia dato una valutazione di insufficienza su ben sei incarichi, rilevando un inadeguato svolgimento delle mansioni rispetto alla qualifica professionale rivestita.

Dev'essere specificato, infatti, che tale valutazione negativa da parte del superiore risulta insufficiente al fine di giustificare il licenziamento del dipendente senza valorizzare alcun precedente significativo ai fini della recidiva. Non è sufficiente, inoltre, per il datore provare l'inadeguatezza della prestazione lavorativa rispetto al minimo contrattuale esigibile: è al contrario necessario per l'azienda, in questo caso l'ente, dimostrare  la «persistenza» del comportamento inadempiente del (presunto) lavativo.

Gli ermellini sottolineano in tal senso sulla scia di altri autorevoli precedenti giurisprudenziali di legittimità, che il rendimento lavorativo inferiore al minimo contrattuale non integra di per sé l'inesatto adempimento che a norma dell'articolo 1218 del codice civile si presume imputabile a colpa del debitore fino a prova contraria: è vero, sono previsti limiti contrattuali, ma l'obbligazione costituita in capo al dipendente resta in qualche modo di mezzi e non di risultato, mentre l'inadeguatezza della prestazione resa può essere imputabile alla stessa organizzazione dell'impresa o, comunque, a fattori non dipendenti dal lavoratore. Nella valutazione del notevole inadempimento da parte del giudice del merito devono poi rientrare anche elementi concreti rilevabili caso per caso, come il grado di diligenza richiesto dal compito e quello utilizzato dal dipendente oltre che l'incidenza dell'organizzazione d'impresa e i fattori socio-ambientali.




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Redazione del CorrieredelWeb.it

"No al razzismo" e giurisprudenza. Dare dello «Sporco negro!» integra l'aggravante del razzismo

L'aumento di pena scatta comunque se la condotta illecita, ad esempio di lesioni, sia strumentalizzata all'odio etnico senza bisogno di altre indagini

 

È una delle offese più brutte e che più dimostrano razzismo e xenofobia, ma con la giurisprudenza non si scherza e dare dello «sporco negro!» può far scattare l'aggravante del razzismo anche se, per ipotesi, il movente dell'aggressione non risulti la discriminazione razziale. È la sentenza 30525/13, pubblicata il 15 luglio dalla Cassazione a rilevare tale principio che per Giovanni D'Agata presidente e fondatore dello "Sportello dei Diritti", vale la pena diffondere perché la cultura dell'integrazione, a volte passa anche dalla conoscenza di decisioni esemplari come questa.

Per determinare l'aumento di pena stabilito dalla cosiddetta "legge Mancino", infatti, è sufficiente che il reato sia stato oggettivamente strumentalizzato all'odio per l'etnia. Se, quindi, c'è stato da parte dell'agente un consapevole comportamento esteriore risoltosi nell'offesa al colore della pelle, ai fini dell'aggravante di cui all'articolo 3 legge 122/93 non risulta necessaria alcuna indagine ulteriore.

Nella fattispecie, i giudici della quinta sezione penale della Suprema Corte hanno rigettato il ricorso dell'imputato, secondo cui non c'è prova che il pestaggio cui ha partecipato ai danni di due maghrebini sarebbe a sfondo razzista. Per la verità è dimostrato che l'aggressione è stata posta in essere proprio per allontanare da quella zona della città i nordafricani, e dunque in ragione dell'identità razziale delle vittime.

Parimenti tale fatto non rileva ai fini dell'aggravante stabilita dalla "Mancino" che, come detto, si configura ogni volta che, nell'accezione corrente, sussiste un pregiudizio manifesto di inferiorità nei confronti di una razza: l'aumento di pena, dunque, si determina quando la condotta posta in essere si manifesti come una forma consapevole di esteriorizzazione di un sentimento di avversione fondato sulla razza, sull'origine etnica o sul colore della pelle. E ciò quando l'animosità della discriminazione è immediatamente percepibile in base al sentire comune come connaturata all'esclusione di condizioni di parità fra le razze. Non è rilevante allora la mozione soggettiva dell'agente, quando egli pone in essere una condotta di aggressione scegliendo di proposito modalità fondate sul disprezzo razziale.

 




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Redazione del CorrieredelWeb.it

lunedì 15 luglio 2013

Perché si dovrebbe mettere la password della propria mail o di Facebook nel testamento

Perché si dovrebbe mettere la password della propria mail o di Facebook nel testamento. Le risorse digitali sono diventate preziose come i beni materiali e devono essere inclusi in testamenti e lasciti della gente

 

Uno studio legale di Adelaide sta consigliando ai suoi clienti di includere nei loro testamenti nomi utente e password per le loro mail, banking online, blog, Instagram e account dei social media.

Ed è un consiglio corretto, per Giovanni D'Agata presidente e fondatore dello "Sportello dei Diritti", perché i parenti e gli eredi in generale con l'avvento delle nuove tecnologie che hanno pervaso la vita quotidiana della generalità dei cittadini, sono esposti a ulteriori dolori e difficoltà quando si cerca di gestire i beni virtuali del caro estinto.

Non è sbagliato, infatti, ai giorni d'oggi raccomandare ai propri clienti di prendere in considerazione la loro presenza online e le istruzioni di cui hanno bisogno i parenti o gli esecutori testamentari ad esempio con i nomi di domini, password e foto.

Molte persone, infatti, sottovalutano tutti gli aspetti connessi a ciò che resta di noi nel mondo della virtualità dopo il trapasso a miglior vita perché nessun gestore di social network o di posta è in grado, ad oggi, di avvisare i parenti in caso di morte dell'utente anche perché nella generalità dei casi non è possibile identificare i prossimi congiunti.

Ovviamente chi è presente sui social network deve prestare la massima attenzione a conservare per iscritto nel modo più sicuro i propri dati identificativi.

L'avvocato di Adelaide ha anche messo in guardia i clienti a seguire la sicurezza di base su internet e mantenere le proprie password separati dai propri nomi utente per prevenire il furto di identità dopo la morte.

Allo stesso tempo, mentre c'è chi consiglia di salvaguardare i proprio dati identificativi dopo la morte, c'è chi tra i professionisti del web, sta preparando propri testamenti digitali perché vuole proteggere in modo permanente la  propria reputazione online e quindi dopo la morte.

Alla luce di tali giuste considerazioni e della utilità connessa al fatto di lasciare i propri identificativi agli esecutori testamentari o ai futuri eredi è corretto però garantire con una normativa ad hoc, che dovrebbe essere presa in considerazione dal legislatore, la tutela anche dopo la morte della massima sicurezza e della riservatezza di tutti coloro che operano sul web.

 




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Redazione del CorrieredelWeb.it


martedì 9 luglio 2013

Patente a punti: chi paga la multa principale non deve riceverne un'altra per non aver comunicato i suoi dati

L'automobilista che paga la sanzione in misura ridotta per il passaggio al "semaforo rosso"  fa acquiescenza all'intero verbale e dunque si "autodenuncia" come responsabile dell'infrazione. Interessante sentenza del Giudice di Pace di Fasano che potrebbe fare giurisprudenza

 

Lo diciamo da anni che il sistema della patente a punti nell'ambito dell'obbligo della comunicazione dei dati del conducente sia quando si è scelto di pagare la sanzione principale che quando si è optato di proporre ricorso, debba essere urgentemente modificato per le distorsioni che crea nell'ambito dell'ordinamento ed in particolare per quello delle sanzioni al codice della strada. Una su tutti: qualsiasi proprietario, pur di non vedersi decurtare i punti dalla propria patente di guida, pur essendo l'effettivo trasgressore, può comunicare i dati di qualsiasi amico o parente pur di evitare l'ulteriore aggravio.

Ed in questo contesto s'inserisce la sentenza 436/13, pubblicata dal giudice di pace di Fasano (Brindisi), che ha aperto un significativo filone giurisprudenziale nello stabilire che non paga anche la seconda sanzione l'automobilista sanzionato per aver attraversato l'intersezione semaforica con la lanterna proiettante luce "rossa", se non ha comunicato i dati della patente di chi era alla guida al momento dell'infrazione, ma se aveva optato per il pagamento della sanzione principale in misura ridotta. In questo caso, rileva il giudice, il trasgressore si dimostra acquiescente all'intero processo verbale redatto e, dunque, anche rispetto all'obbligo di fornire informazioni sui dati del conducente: in altre parole, chi paga dopo essere stato beccato dal photored e la contestazione gli viene differita, si riconosce come effettivo responsabile della violazione e quindi si assoggetta al taglio dei punti sulla patente.

Nel caso di specie, il giudice onorario ha accolto l'opposizione proposta dal conducente,  condannando, peraltro, l'ente accertatore al pagamento del contributo unificato, ed ha rilevato come l'intervenuto pagamento, costituisca un riconoscimento di responsabilità rendendo irripetibili le somme versate a titolo di sanzione.

Per il magistrato brindisino, il Comune avrebbe dovuto procedere al taglio dei punti dalla patente del trasgressore che ha versato la somma con ciò rinunciando espressamente a opporsi al verbale. La sostituzione della sanzione pecuniaria a quella personale, infatti, può azionarsi soltanto quando il proprietario del veicolo non ha consentito in alcun modo di accertare il responsabile dell'illecito; né all'organo accertatore è riconosciuto alcun potere discrezionale nell'applicazione della prima sanzione in luogo dell'altra.

A parere di Giovanni D'Agata presidente e fondatore dello "Sportello dei Diritti", associazione da anni impegnata anche nella tutela degli utenti della strada, la sentenza in questione potrà fare giurisprudenza per la persuasività delle conclusioni cui è giunta in una materia in cui appare fin troppo eccessiva l'amplificazione degli oneri a carico dei proprietari dei veicoli a motore.

 




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Redazione del CorrieredelWeb.it

venerdì 5 luglio 2013

Autovelox. Nulla la multa se il verbale non specifica il nome del funzionario che attiva l'apparecchiatura

Autovelox e apparecchiature elettroniche per la rilevazione delle infrazioni. Dev'essere annullata la multa se il verbale non indica il nome del funzionario che attiva l'apparecchiatura. I pubblici ufficiali devono assistere allo sviluppo delle foto effettuate con il traffiphot. E la Polizia locale è obbligata a specificare quale dei Comuni associati sta sanzionando il trasgressore

 

Interessante decisione del Giudice di Pace di Rovigo che fa il punto sulle infrazioni al codice della Strada effettuate con il famigerato "traffiphot", che per Giovanni D'Agata presidente e fondatore dello "Sportello dei Diritti", vale la pena segnalare per rappresentare quanti vizi possano essere rilevati in un verbale al codice della strada quando le contestazioni vengono effettuate con strumentazione elettronica gestita da appaltatori privati e non dalle forze di polizia stradale, locali o nazionali.

Secondo il giudice di merito, dev'essere annullata la multa per eccesso di velocità se il verbale non indica il nome del funzionario pubblico che attiva e disattiva il traffiphot dal quale è stata rilevata l'infrazione. E in ogni caso i dipendenti del Comune devono presenziare allo sviluppo delle foto con le auto sanzionate effettuato dalla società appaltatrice del servizio.

Nel caso di specie, è stato accolto il ricorso del (presunto) trasgressore in primo luogo per un vizio formale che riguarda un difetto di notifica. La polizia locale che agisce per conto di un insieme di piccoli Comuni nell'area, è il soggetto che ha effettuato la notifica, ma il verbale non specifica chi è l'ente sanzionatore, che poi sarebbe l'amministrazione locale nel cui territorio la violazione risulta accertata: l'omissione rende di per sé illegittimo il verbale.

Il verbale impugnato, peraltro, risulta essere viziato anche per altre ragioni: non è stato rispettato l'obbligo della polizia locale di presenziare alle attività di installazione e attivazione del traffiphot. Nulla si sa della certificazione di qualità dello strumento (restano dubbi sulla legittimità a accertare gli eccessi di velocità delle moto). Di più: la fotografia utilizzata per la contestazione del presunto illecito risulta sviluppata da una società privata che riporta il frame "incriminato" in cd masterizzati, che si coordinano con il programma di gestione delle verbalizzazioni in dotazione alla polizia municipale verbalizzante. In nessun caso, quindi, risulta che gli agenti di Polizia Locale siano presenti alle operazioni, come rilevato dal giudice onorario, che ha, quindi, accolto il ricorso.

 




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giovedì 4 luglio 2013

Corte Giustizia UE: Italia condannata per la mancata adozione di provvedimenti pratici ed efficaci a favore di tutti i disabili

 

   

Corte Giustizia UE:  Italia condannata per la mancata adozione di provvedimenti pratici ed efficaci a favore di tutti i disabili. Il datore ha l'obbligo di assicurare la formazione anche ai portatori di handicap e non può discriminarli nelle progressioni di carriera

 

L'Italia non fa abbastanza per aiutare i disabili a inserirsi nel mondo del lavoro. Per tali  ragioni la Corte di giustizia europea con la sentenza C312/11, pubblicata il 4 luglio dalla quarta sezione le ha inflitto una. condannata per non aver imposto ai datori di lavoro l'adozione di provvedimenti in modo da aiutare davvero i disabili. Secondo  Bruxelles servono attrezzature e locali adeguati e una ripartizione opportuna dei compiti mentre l'Italia è venuta meno ai propri impegni derivanti dal diritto dell'Unione. Gli Stati comunitari devono imporre a tutti i datori di lavoro l'adozione di provvedimenti pratici ed efficaci a favore di tutti i disabili. E invece, spiegano i giudici Ue, tanto resta da fare con provvedimenti efficaci e pratici che costringano ad esempio le imprese a sistemare i locali, adattare le attrezzature e ad assicurare a chi è diversamente abile un'organizzazione del lavoro che garantisca i ritmi di lavoro adeguati e una coerente ripartizione dei compiti a meno che le attività richieste non comportino oneri spropositati. Senza dimenticare che il datore ha l'obbligo di assicurare la formazione anche ai portatori di handicap. senza dimenticarli o discriminarli nelle progressioni di carriera. Tutto questo finora l'Italia non l'ha fatto.

Per Giovanni D'Agata presidente e fondatore dello "Sportello dei Diritti", la nostra normativa risulta tutt'ora carente anche se prevede incentivi e convezioni con le autorità locali, ma alla fine non impone obblighi di portata generale, identici per tutte le aziende.

 




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F-35: appello a Napolitano, il Parlamento sovrano




F-35: appello al presidente Napolitano il Parlamento sovrano
Dubbi sulla costituzionalità: il Consiglio di Difesa che prevarica il Parlamento. Un altro colpo alla democrazia italiana".

F35 e decisione del Consiglio di Difesa. Barbera CIPSI: "Il parlamento è sovrano. Appello al Presidente Napolitano e ai parlamentari che voteranno le prossime mozioni. Che connessione c'è tra la produzione e vendita d'armi e la politica italiana? Perché in campagna elettorale tutti, in un modo o in un altro, erano favorevoli a rivedere l'acquisto degli F35, ed ora si scomoda anche il Consiglio Supremo di Difesa, per bloccare il Parlamento a garanzia del loro acquisto? Dubbi sulla costituzionalità: il Consiglio di Difesa che prevarica il Parlamento. Un altro colpo alla democrazia italiana".

 

Roma, 4 luglio 2013 – "La presa di posizione del Consiglio Supremo di Difesa di ieri, lascia veramente sbalorditi anche chi non segue queste vicende ogni giorno" afferma Guido Barbera, presidente di Solidarietà e Cooperazione Cipsi – coordinamento di 40 associazioni di solidarietà e cooperazione. E Barbera continua: "La piena titolarità del Parlamento a decidere in materia di acquisizione e riordino dei sistemi d'arma è prevista dalla legge di riforma dello strumento militare approvata alla fine del 2012 e controfirmata dal Capo dello Stato. È evidente che il Consiglio Supremo di Difesa non può ledere l'autonomia del Parlamento nella decisione assunta con la mozione sugli F35. Sembra che i nostri politici abbiano paura di risparmiare troppi miliardi di euro per destinarli a risolvere qualche problema de nostro Paese: scuole, lavoro, sanità, welfare, ricerca… L'Italia, dicono, non può rinunciare agli F35! In molti si rimangiano le dichiarazioni della campagna elettorale ed il Consiglio Supremo – composto in gran parte dai membri del Governo – intende garantirsi completa autonomia di azione, rispetto alla "democrazia parlamentare" del nostro Paese, affermando che: "la facoltà del Parlamento non può tradursi in un diritto di veto su decisioni operative e provvedimenti tecnici che, per loro natura, rientrano tra le responsabilità costituzionali dell'Esecutivo". Come, non riprendere l'appello di Padre Zanotelli e chiedersi che connessione c'è tra la produzione e vendita di armi e la politica italiana?", chiede Barbera.

"Chiediamo con urgenza al Presidente della Repubblica, in qualità di più alto garante della Costituzione, una parola chiara e inequivocabile che sciolga ogni dubbio in merito al conflitto che è stato generato con le decisioni del Consiglio Supremo di Difesa, riconoscendo al Parlamento le sue piene prerogative che gli competono. L'Italia ha bisogno di semplicità e chiarezza - conclude Barbera - per prendere decisioni coraggiose e concrete, immediate, per garantire quel vivere insieme nel benessere reciproco, che è alla base della civiltà e della convivenza. Chiediamo ai Senatori che voteranno l'11 luglio p.v. una nuova mozione per la sospensione del programma degli F35, di difendere e tutelare, con un voto chiaro, il loro mandato che hanno ricevuto dai cittadini, contro ogni forzatura esterna anche istituzionale. E auspichiamo l'intervento di esperti costituzionalisti per verificare che non vengano violate le regole Costituzionali".

 

Cassazione: risarcibili al lavoratore che viene adibito a mansioni dequalificanti i danni da "straining"

Al lavoratore confinato nello sgabuzzino riconosciuti i danni da "straining" per le lesioni subite a causa del comportamento dei superiori che lo hanno "messo in mezzo"

Non viene riconosciuto il reato di maltrattamenti in famiglia di cui all'articolo 572  del Codice Penale perché si tratta di grande azienda e manca il requisito della familiarità ma non sono esclusi altri profili illeciti nei confronti del dipendente mobbizzato che ha comunque diritto al risarcimento del danno in sede civile

 

Significativa decisione della Cassazione penale in tema di maltrattamenti e vessazioni subiti dal lavoratore. Con la sentenza 28603/13, della sesta sezione penale della Suprema Corte, pubblicata il 3 luglio dell'anno in corso, non è stata riconosciuta la sussistenza del reato di "maltrattamenti in famiglia" a carico dei dirigenti che hanno mobbizzato il lavoratore, ma non è stato escluso che i danni causati al dipendente preso di mira dallo "straining", cioè la marginalizzazione e l'offensiva dequalificazione sul lavoro, possano configurare il reato di lesioni personali volontarie laddove pur escludendo, come detto, il delitto rubricato all'articolo 572 del codice penale non vi siano anche altri profili meritevoli di eventuale sanzione sul piano penale, come le lesioni personali, e quindi tali da poter determinare il diritto al risarcimento danni.

Nel caso in questione, in particolare, è stato accolto il ricorso della parte civile in relazione alla sentenza di assoluzione pronunciata nei confronti dei dirigenti che deve essere annullata solo agli effetti civili con riferimento al reato di lesioni personali. Viene cosi deciso il rinvio al giudice civile competente per valore in grado d'appello, non essendo possibile un nuovo giudicato penale in assenza di impugnazione da parte del P.M.

Una bella vittoria del lavoratore messo all'angolo dai propri capi, che per Giovanni D'Agata presidente e fondatore dello "Sportello dei Diritti", vale la pena diffondere per gli effetti positivi che può avere sia in materia di tutela dei lavoratori, che in via preventiva per dissuadere i datori e i superiori gerarchici da comportamenti analoghi che purtroppo si verificano puntualmente sui  luoghi di lavoro nostrani. Si tratta, infatti, del caso tipico del lavoratore italiano che in precedenza aveva un incarico di responsabilità, ed in seguito viene preso di mira dai superiori che lo emarginano progressivamente fino a confinarlo in uno sgabuzzino spoglio e sporco, dopo averlo sottoposto persino ad un pubblico "processo": è un evidente caso di "straining", una particolare forma di persecuzione sul lavoro che viene attuata ponendo sempre in condizione di inferiorità il dipendente che, come si suol dire, viene "messo in mezzo".

Gli ermellini prendono atto che il reato di maltrattamenti in famiglia di cui all'articolo 572 del codice penale non possa configurarsi nei casi di mobbing nelle grandi aziende è un dato di fatto poiché la fattispecie incriminatrice deve comunque essere caratterizzata dal tratto della "familiarità", che ricorre soltanto nei piccoli contesti lavorativi e "para - familiari", per esempio nel rapporto che lega il collaboratore domestico alla famiglia presso cui è impiegato, mentre nel caso preso in esame è esclusa perché si tratta di azienda "complessa".

Tale assunto però non esclude che al di là del delitto di maltrattamenti, non possano configurarsi ugualmente le lesioni personali volontarie, per la diversa obiettività giuridica delle due ipotesi criminose: nella specie il lavoratore demansionato ed esiliato nello stanzino delle scope patisce la situazione al punto da ammalarsi, laddove gli è diagnosticato un disturbo dell'adattamento e depressione.

 




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mercoledì 3 luglio 2013

Può essere condannato penalmente chi parcheggia l'autovettura davanti all'ingresso di un garage

 

Può essere condannato penalmente chi parcheggia l'autovettura davanti all'ingresso di un garage impedendo al proprietario di entrare o uscire con il proprio veicolo. L'automobilista indisciplinato può subire la reclusione per il reato di violenza privata (610 c.p.) che è integrato dall'uso di qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione

 

Quante volte ci è capitato di trovare l'ingresso del box auto o della propria abitazione bloccato da un'altra autovettura, ma dopo la sentenza in questione della Suprema Corte, tutti quegli automobilisti a dir poco indisciplinati ci penseranno due volte prima di ripetersi perché possono essere condannati per il reato di "violenza privata" e rischiare sino a quattro anni di reclusione.

In tal senso persuade ad evitare comportamenti del genere, spiega Giovanni D'Agata presidente e fondatore dello "Sportello dei Diritti", la sentenza della quinta sezione penale della Corte di Cassazione 28487 del 2 luglio 2013, che ha preso in esame il caso di chi blocca l'ingresso al garage del proprietario - persona offesa impedendole di parcheggiarvi la sua auto. I giudici di Piazza Cavour sulla scia di precedenti per casi simili hanno rilevato che tale comportamento integra il reato di cui all'articolo 610 del Codice Penale in quanto la "violenza privata" si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione.

Nella fattispecie, i giudici del Palazzaccio hanno rigettato il ricorso di un 60enne contro la condanna a 2 mesi e 15 giorni di reclusione e al risarcimento del danno da parte della Corte d'appello di Catanzaro, perché la corte di merito aveva riconosciuto la sussistenza del reato in quanto con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso con violenza consistente nel parcheggiare la propria autovettura in modo tale da bloccare il passaggio alle autovetture in uscita e in entrata dal garage costringendo il proprietario a non poter parcheggiare.

I giudici di legittimità rilevando la sussistenza degli estremi del reato per cui era stato prima imputato e poi condannato hanno ribadito il principio secondo cui: «Integra il delitto di violenza privata (articolo 610 Cp) la condotta di colui che parcheggia la propria autovettura in modo tale da bloccare il passaggio impedendo alla parte lesa di muoversi, considerato che ai fini della configurabilità del delitto in questione, il requisito della violenza si identifica in qualsiasi mezzo idoneo a privare coattivamente l'offeso della libertà di determinazione e di azione».

Gli ermellini, hanno sottolineato come già con la sentenza 21779 del 2006 era stato condannato con un precedente analogo colui che aveva parcheggiato l'auto in maniera da ostruire l'ingresso al garage condominiale rifiutandosi di rimuoverla nonostante la richiesta della persona offesa.

 




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