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giovedì 27 febbraio 2014

Anatocismo e massimo scoperto. La prescrizione per rivalersi decorre dalla data di chiusura del conto corrente

La Cassazione ribadisce che essendo un contratto di durata solo dal saldo finale vengono definiti crediti e debiti fra le parti

Un’importante sentenza della Corte di Cassazione, la 4518/14, pubblicata ieri 26 febbraio chiarisce che solo dal momento della chiusura del conto corrente scatta il termine di prescrizione per il correntista che vuole rivalersi delle commissioni di massimo scoperto e degli interessi anatocistici, entrambi illegittimi, applicati senza titolo dalla banca. La prima sezione civile della Suprema Corte ricorda, infatti, che  il contratto fra le parti è di durata e soltanto alla fine si definiscono con certezza i rispettivi crediti e debiti.

Nel caso di specie, è stato accolto il ricorso di un’impresa che aveva stipulato un contratto di conto corrente ordinario acceso «per anticipazioni salvo buon fine». Per i giudici di legittimità dev’essere censurata la sentenza del tribunale, in qualità di giudice dell’appello che  sostiene che la prescrizione del diritto di ripetizione in capo al correntista decorrerebbe da ciascun addebito trimestrale sul rilievo che l’indebito si perfeziona con l’annotazione degli interessi anatocistici, atto che farebbe scattare il decorso del termine. Ad onor del vero il contratto di conto corrente dà luogo a un unico rapporto giuridico che si estrinseca in una pluralità di atti esecutivi, mentre le singole operazioni di addebito e accredito costituiscono soltanto esecuzioni frazionate di una sola obbligazione e, dunque, devono essere considerate nel loro complesso: soltanto con il saldo finale si definiscono i crediti e i debiti tra le parti.

Ma v’è di più: i versamenti che il correntista esegue durante l’esplicamento del rapporto con l’istituto di credito hanno normalmente la funzione di ripristinare la provvista, che risponde allo schema causale tipico del contratto e non determinano uno spostamento patrimoniale dal solvens all’accipiens: una diversa finalizzazione dei singoli versamenti (o di alcuni di essi) deve essere in concreto provata da parte di chi intende far decorrere la prescrizione dalle singole annotazioni delle poste relative agli interessi passivi anatocistici; nella fattispecie, peraltro, non risulta dedotta né provata una destinazione dei versamenti in deroga all’ordinaria utilizzazione dello strumento contrattuale.

Peraltro, non vi è nessun dubbio, sulla ripetizione delle somme relative al massimo scoperto: non sussiste una previsione contrattuale ad hoc né è configurabile alcuna clausola d’uso.

Per Giovanni D'Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti” ancora un’importante decisione a tutela degli utenti e dei consumatori che lascia ben sperare circa le numerose azioni in merito già avviate dall’associazione.

 


Condanna penale per chi utilizza un nickname fasullo per molestare in chat il vicino di casa

Ricorre il reato di sostituzione di persona di cui all’articolo 494 del codice penale

Può essere condannato penalmente ai sensi dell’articolo 494 del codice penale colui che utilizza l’utenza telefonica con uno pseudonimo collegato a un nome di fantasia per molestare un'altra persona.
Per la Cassazione penale, infatti, integra il reato di sostituzione di persona la condotta di chi utilizzando un nickname che rimanda al nominativo di una persona inesistente, occulta la sua identità per molestare, tramite messaggi in chat, alcuni destinatari inseriti nella sua “black list”.
A stabilirlo la sentenza n. 9391 pubblicata ieri 26 febbraio che Giovanni D'Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti” porta all’attenzione del pubblico per invitare a fare attenzione ed evitare che un comportamento ricorrente da quando si sono diffuse chat, messaggerie istantanee e social network sia ripetuto per le conseguenze spesso sottovalutate che possono macchiare la propria fedina penale.
I giudici della quinta sezione penale della Suprema Corte, hanno infatti, rigettato il ricorso di un’imputata già condannata dalla Corte d’appello di Palermo per il reato di cui all’articolo 494 del codice penale per avere, al fine di commettere reato di molestia e disturbo alle persone, indotto in errore una persona, utilizzando un nickname di fantasia.
Il giudice dell’appello aveva evidenziato come lo pseudonimo virtuale fosse intestato a una società di intrattenimento telefonico presso cui aveva lavorato l’imputata nel periodo contestato e rinviava a generalità fittizie.
Era stato provato oltre ogni ragionevole dubbio, peraltro, che l’autrice dei messaggi e degli annunci molesti fosse stata la condannata, non avendo alcun rilievo l’assenza di qualsiasi motivo di risentimento nei confronti della famiglia molestata dedotta dalla difesa, come dimostrato dal memoriale in atti a firma della ricorrente «da cui si rileva come fosse legata da rapporti tutt’altro che amichevoli con la famiglia da molestare, vicini di casa destinatari e vittime della condotta criminosa, inseriti al primo posto in un elenco di nemici».
I giudici di legittimità ritengono, quindi valide le conclusioni del giudice del merito. Il primo motivo è inammissibile perché deduce questioni di merito circa la valutazione del materiale probatorio operata dalla Corte di merito, «che ha valorizzato, per un verso, le risultanze che hanno condotto a identificare nella ricorrente, che era solita utilizzare le generalità fittizie e il nickname, l’autrice degli annunci molesti e, per altro verso, l’atteggiamento non amichevole nei confronti dei vicini di casa desumibile dal loro inserimento al primo posto nella “black list” nel memoriale a firma dell’imputata. La valutazione della Corte di merito è, dunque, coerente «rispetto ai dati probatori richiamati e sulla base di una linea argomentativa immune da cadute di consequenzialità logica, in quanto espressione di un apprezzamento dei vari indizi analitico e correttamente collocato nel quadro di una loro valutazione globale».


mercoledì 26 febbraio 2014

Legge Fini-Giovanardi, dalla Corte Costituzionale un gravissimo J'accuse al legislatore

Rimini, 26 febbraio 2014. Da una prima lettura della sentenza n. 32/2014 della Corte Costituzionale (1) che ha dichiarato illegittima la legge Fini-Giovanardi, pare di potere dire che si tratta di un gravissimo J'accuse al modo con il quale Carlo Giovanardi Giovanardi, Gianfranco Fini e loro accoliti hanno ritenuto di potere innovare in modo subdolo e surrettizio una materia come quella degli stupefacenti sottraendola deliberatamente e consapevolmente al confronto parlamentare, non solo stravolgendo il contenuto dell'originario decreto legge, ma, addirittura, blindando la procedura illegittimamente seguita anche attraverso il ricorso al voto di fiducia.
Queste critiche vanno, quindi, ben al di là della eventuale querelle di merito in ordine alla distinzione delle sanzioni per le droghe pesanti e quelle leggere, perchè, inoltre, lasciano luogo aperta la possibilità di dare un giudizio negativo alla scelta di unificare le pene.
Emerge un quadro allarmante in base al quale il governo dell'epoca intraprese una linea palesemente illegittima nella convinzione di non incontrare ostacoli, anche per l'impossibilità del Presidente della Repubblica di intervenire anche solo parzialmente.

Carlo Alberto Zaina, legale e consulente Aduc in materia di stupefacenti

(1) http://www.aduc.it/generale/files/file/allegati/2014/cortecost-32-2014.pdf
t.

martedì 25 febbraio 2014

Reato di omicidio stradale? No, in nome della sicurezza e del buon diritto



Firenze, 25 febbraio 2013. Il presidente del Consiglio dei ministri, Matteo Renzi, durante il suo discorso per la fiducia al Senato, ha manifestato l'intenzione perche' chi, guidando in stato di alterazione per alcool o stupefacenti, commette un omicidio, non sia piu' incolpato del reato di omicidio colposo ma volontario.
La proposta in se' -secondo noi- non regge, perche' sarebbe il caso il caso -improbabile pur se gia' previsto dalla legge- di chi, dopo essersi ubriacato o drogato, si mette volutamente al volante con l'intento di ammazzare qualcuno, trasformare la colpa (reato commesso ma non voluto) in dolo (reato che si e' appositamente voluto commettere) e' incostituzionale e viola i più elementari principi del diritto della tradizione giuridica occidentale: sorgerebbe una sorta di responsabilita' oggettiva che contraddice i principi garantisti della Costituzione in materia penale.
Ci domandiamo perche' non ci si limiti, per esempio, a proporre di inasprire le aggravanti, con sanzioni adeguate all'intensita' della colpa... ma forse cosi' non si mostra la mascella maschia e dura della presunta forza della legge, e l'effetto mediatico e' minore.
A noi la sicurezza stradale interessa e, siccome come associazione di cittadini siamo vittime dell'assenza e/o degli errori dell'amministrazione centrale e locale, gradiremmo un maggiore impegno nella prevenzione piuttosto che nelle pene.
Prevenzione che significa tante cose e solo in limitata parte la paura della sanzione che, tra l'altro, nello specifico, gia' c'e' e riteniamo che sia notevole. Siamo fanalino di coda in Europa in materia di controlli stradali, e non per l'assenza di norme severe. Prevenzione significa:
- maggior numero di forze di polizia per strada: i vari automatismi -autovelox, fotored, telecamere varie- oggi sempre piu' diffusi, non sono sufficienti. Inoltre il loro abuso da parte delle amministrazioni per fare cassa non e' certo istruttivo e, quindi, non crea consapevolezza di un'amministrazione amica del cittadino, che si ingegna sempre di piu' per non “farsi fregare”. La presenza delle forze di polizia, invece, oltre che essere di per se' un deterrente, e' una piu' diffusa certezza dell'applicazione del codice.
- migliori infrastrutture e, soprattutto, migliore e continua manutenzione delle stesse. Roma e Firenze, per fare solo due esempi, sono un disastro per buche e manto stradale disastrato, una delle principali cause degli incidenti.
Certamente questo comporta una maggiore disponibilita' economica sia dell'amministrazione nazionale che locale, mentre inasprire le pene no (almeno in apparenza e all'inizio). Ma siamo sicuri che non valga la pena fare investimenti economici in merito, viste le disastrose ricadute economiche che il perdurare dell'attuale situazione provoca: sanita' pubblica, spese e tempi individuali, mobilita' pubblica e privata, etc?

COMUNICATO STAMPA DELL'ADUC
Associazione per i diritti degli utenti e consumatori



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Redazione del CorrieredelWeb.it


venerdì 21 febbraio 2014

Dire "porco straniero" o "straniero di merda", non è razzismo per i giudici svizzeri

Dire "porco straniero" o "straniero di merda", non è razzismo. Ancora una volta la Svizzera si dimostra “campione di tolleranza” al contrario

Dare del "porco straniero" o " straniero di merda " a qualcuno costituisce un'ingiuria ma non una discriminazione razziale ai sensi del codice penale svizzero. Lo hanno sentenziato i supremi giudici di Losanna del Tribunale federale (TF). Lo stesso vale anche quando i medesimi insulti vengono utilizzati in relazione a singole nazionalità. A stabilirlo è in Tribunale federale in merito al caso di un poliziotto che nel 2007 aveva fermato un richiedente asilo algerino al salone internazionale dell'orologeria e della gioielleria di Basilea, perché sospettato di borseggio ai danni di un cittadino russo. La giustizia della città renana ha condannato il poliziotto con l'accusa di discriminazione razziale e gli ha appioppato una pena pecuniaria con la condizionale. Il Tribunale federale, cui l'agente ha presentato ricorso, non è d'accordo e ha annullato la condanna. A suo avviso le esternazioni del poliziotto non sono da considerare in rapporto con una determinata razza, etnia o religione come esige l'articolo 261bis del codice penale che punisce la discriminazione razziale: i termini "straniero" o "asilante" - rileva il TF - possono riferirsi a persone di origini e religioni del tutto diverse. Il Tribunale federale va ancora oltre: secondo i giudici losannesi, gli stessi insulti non possono essere considerati una discriminazione razziale neppure se riferiti a una precisa nazionalità o etnia. Epiteti contenenti le parole "Sau" e "Dreck" - affermano - nell'area linguistica tedescofona sono da molto tempo ampiamente utilizzati come "manifestazione di malumore" e sono sentiti certo come ingiurie, ma non come attacco alla dignità umana, condizione perché si realizzi la fattispecie del reato di "discriminazione razziale". In ogni caso, sostiene il Tribunale federale, finché tali insulti sono diretti a singoli, non sono sentiti da terze persone non coinvolte come attacchi razzistici alla dignità umana, ma soltanto come più o meno primitive ingiurie lesive dell'onore motivate da sentimenti antistranieri.Gli insulti proferiti dal poliziotto nell'esercizio delle sue funzioni - conclude l'alta corte di Losanna - sono certo particolarmente fuori posto e inaccettabili. Non vanno però oltre il reato di "ingiuria" (art. 177 CP). Il caso torna alla giustizia basilese perché riveda la sua sentenza. Poiché l'ingiuria è un reato punibile soltanto a querela di parte, essa dovrà accertarsi, per una condanna, che nel 2007 ci sia stata una denuncia penale contro il poliziotto. Ancora  una volta la Svizzera, rileva Giovanni D'Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti” si rivela un paese tollerante “al contrario”,  supportata da provvedimenti e decisioni delle istituzioni che non fanno altro che suffragare discriminazioni e che xenofobia  che riguardano migliaia di stranieri, anche molti nostri connazionali che quotidianamente contribuiscono allo sviluppo del Paese d’Oltralpe.

 


giovedì 20 febbraio 2014

Canone Rai. Ricorso al Tar contro mancato aumento? Fatti di ordinaria cronaca ...


Firenze, 20 Febbraio 2014. Pare che la Rai abbia presentato un ricorso al Tar contro il mancato aumento del cosiddetto canone (l'imposta che si paga per il possesso di un apparecchio tv) cosi' come deciso dal competente ministero. Lo denuncia il presidente della commissione Finanze della Camera, Daniele Capezzone, che se ne rammarica perche' la tv di Stato sarebbe insensibile alla crisi economica e incurante della mastodontiche spese che sostiene per la propria attivita' (1).
Questa indignazione ci fa piacere come qualunque altra che metta in risalto l'incongruenza del pagamento di un'imposta che, prendendo letteralmente per i fondelli i contribuenti, viene spacciata per canone o abbonamento. Voce isolata e intermittente come qualche altra all'interno delle nostre massime istituzioni rappresentative; voce curiosa, perche' denuncia “un carrozzone clientelare e lottizzato”, denuncia pronunciata da uno dei piu' importanti rappresentanti di quei partiti che della lottizzazione e del clientelismo in Rai ne sono alfieri, attori, protagonisti, fruitori. “Chi e' senza peccato scagli la prima pietra”, verrebbe da pensare, ma noi ci accontentiamo di meno: non pretendiamo l'illibatezza eterna di chi denuncia, ma auspicheremmo una continuita' di azioni e proposte risolutive in merito; per esempio: appello alle dimissioni, da parte dell'on.Capezzone, di tutti coloro che sono referenti della parte politica del presidente della commissione Finanze; proposte di legge e ordini del giorno ad hoc; promozione di iniziative abolizioniste e razionalizzatrici; invito al leader del partito dell'on.Capezzone (che e' anche proprietario di altri importati canali tv in concorrenza con la Rai) perche' denunci la tv di Stato per abuso di posizione dominante (la Rai percepisce l'imposta/canone che le altre tv non percepiscono, ma come tutte ha introiti pubblicitari).
Perche' se non registriamo coerenza e continuita' in azioni del genere, non ci puo' non venire in mente quando in passato, alla bisogna delle proprie azioni di parte politica, il leader del partito dell'on.Capezzone invitava a non pagare l'imposta/canone, salvo poi non fare nulla a livello istituzionale e -imperterrito- continuare a lottizzare e spartirsi il carrozzone della tv pubblica.

Qui il nostro canale web per l'abolizione dell'imposta/canone: http://tlc.aduc.it/rai/

 
(1) cosi' l'on. Capezzone, da un lancio di agenzia: "Se la notizia fosse vera, allora saremmo dinanzi a un quadro surreale: quello di una Rai cosi' "sensibile" alla crisi che ha colpito famiglie e imprese, da chiedere che venga aumentata una delle imposte piu' odiate dai contribuenti. Basterebbe, causa anche ascolti in picchiata, diminuire i cachet di conduttori e ospiti del Festival ed eventi del genere; basterebbe evitare che la Rai continuasse ad essere per tanti versi un carrozzone clientelare e lottizzato; basterebbe un po' di trasparenza sui contratti milionari stipulati in questi anni, per far capire a tutti come certe ipotesi appaiano davvero offensive per i cittadini. Mamma Rai smetta di mungere i contribuenti e provi a spendere meglio le risorse pubbliche, purtroppo ingenti, di cui dispone".

Vincenzo Donvito, presidente Aduc



Avv.Galletti: finalmente ripristinata la regolarità delle udienze penali a Roma



MANIFESTAZIONE AVVOCATI A ROMA. IN MIGLIAIA ALLA PARTENZA.
IL CONSIGLIERE GALLETTI: "INSORGIAMO PER LA GIUSTIZIA E CONTRO CHI VUOLE CONSENTIRNE L'ACCESSO SOLO AI RICCHI"


Il Consigliere Tesoriere dell'Ordine degli Avvocati di Roma, Avvocato Antonino Galletti, più votato alle scorse elezioni forensi con oltre 4 mila preferenze, ha dichiarato:

"Gli ultimi improvvidi interventi governativi e parlamentari hanno infarcito il nostro sistema di Giustizia di tanti inutili aggravi con l'intento di conculcare i diritto dei cittadini a rivolgersi al Giudice per ottenere tutela dei loro diritti e interessi: dall'aumento indiscriminato del contributo unificato che costituisce nei fatti una barriera all'accesso alla Giustizia sino alle deliranti previsioni di introdurre la c.d. motivazione a pagamento, donde il cittadino per sapere perché ha
vinto o perso in giudizio dovrà versare un obolo ulteriore e sostanzioso allo Stato".

Prosegue Galletti "Il sistema è oramai al collasso e l'Avvocatura non può tollerare supinamente il calpestio dei diritti dei cittadini, sopratutto dei più poveri e di coloro che hanno bisogno di rivolgersi al Giudice per ottenere una qualche forma di tutela".

"Le ragioni della protesta degli avvocati risiedono nelle difficoltà, oramai insopportabili per i comuni cittadini, che il legislatore negli ultimi anni ha accentuato per rendere possibile anche il solo affacciarsi al servizio Giustizia. Lo svilimento dell'attività professionale degli avvocati, a torto additati come lobby proprio mentre è in corso da anni una vera e propria proletarizzazione della categoria, è insopportabile al pari delle continue violazioni che cittadini subiscono, poiché una avvocatura debole è una manna per il potere politico ed economico".

Giustizia italiana. E' difficile fidarsi....


Firenze, 20 febbraio 2014. Dopo 11 sentenze e a quasi 40 anni di distanza, si celebra oggi davanti alla quinta sezione penale della Cassazione l'ultimo grado del processo per la strage di piazza della Loggia a Brescia del 28 maggio 1978, in cui persero la vita 8 persone e un centinaio rimasero ferite nel corso di una manifestazione promossa dai sindacati. L'udienza di oggi riguarda il terzo filone di indagine per l'eccidio, per il quale sono stati assolti, sia in primo che in secondo grado, tutti gli imputati.
Non e' la trama di un film, e neanche la presentazione di una trasmissione televisiva sulla storia d'Italia, ma il palese esempio del fallimento di un sistema giudiziario, passato dal coma alla morte nel giro di questi ultimi anni. Anni in cui, ai frequentissimi appelli e inviti da piu' parti -lese o non lese dal medesimo sistema o dai suoi gestori, non esclusi i giudici scevri da ogni responsabilita' civile- i politici hanno sempre fatto orecchie da mercante, difendendo solo le proprie nicchie, le proprie corporazioni, i propri privilegi. A farne le spese e' sempre il cittadino utente di questo sistema, sia che si tratta dei giudizi in sede penale che in quella civile; spese in termini di ingiustizia:
- per le troppo frequenti sentenze basate sui singoli convincimenti e appartenenze dei giudici,
- e' ormai diffusa la rinuncia a qualunque ricorso alla giustizia:
* nelle questioni di piccole entita' economiche, i costi per usufruire dei servizi della giustizia sono piu' alti di quelli che si riuscirebbe a recuperare in caso di riconoscimento delle proprie ragioni, e la possibilita' che -pur riconosciute le proprie ragioni- il giudice compensi le spese di giudizio fra entrambe le parti piuttosto che accollarle alla parte soccombente, e' molto alta, e quindi le proprie ragioni hanno un costo economico piu' alto di quanto recuperato;
* nelle altre questioni, e' altissima la possibilita' che si arrivi a tempi come quello di piazza della Loggia. Tant'e' che non sono pochi quei legali -per esempio- che pur sapendo che il proprio cliente ha torto, comunque procedono in giudizio contro qualcuno, perche' alla fine, davanti alla prospettiva di costi dilatati e dilanianti dalla lungaggine giudiziale, anche il piu' convinto delle proprie ragioni, preferisce transare -e quindi rimetterci un po' di soldi- invece di continuare, probabilmente vedersi riconosciute le proprie ragioni, ma dovendo poi versare ingenti somme, superiori a quelle versate per la transazione prima del giudizio.
Noi, come associazione per i diritti degli utenti e consumatori, siamo quotidianamente coinvolti in questo sistema sfasciato e, subendone le conseguenze come qualunque altro, rileviamo che il governo in formazione ha preso dei generici impegni in merito. Aspettiamo impazienti e speranzosi che non ci si indirizzi solo verso cambiamenti come quelli operati fino ad oggi, dove, per diminuire il carico, si e' solo provveduto ad aumentare i costi per l'accesso... col risultato che in molti casi, questo accesso e' stato inibito.

Vincenzo Donvito, presidente Aduc

martedì 18 febbraio 2014

Elusione fiscale. Per la Cassazione Raul Bova non commise reato

Accolto il ricorso dell’attore mentre la questione torna sul tavolo del Tribunale di Roma

 

La dichiarazione infedele con cui si elude il fisco non ha rilevanza penale se non viene superata la soglia di 50 mila euro. E’ quanto sentenziato dalla Corte di cassazione che, con la sentenza 7615 del 18 febbraio 2014 ha accolto il ricorso presentato da Raul Bova. L’attore era stato indagato per aver creato una società schermo alla quale aveva ceduto i suoi diritti di immagine al solo scopo di ottenere un indebito risparmio fiscale. Inoltre per la Procura la dichiarazione dell’impresa conteneva dei costi fittizi. Per gli ermellini “il superamento della soglia rappresentata dall'ammontare dell'imposta evasa costituisce dunque una condizione oggettiva di punibilità, in mancanza della quale (ossia al di sotto della predetta soglia) l'interesse dell'amministrazione finanziaria all'esattezza delle dichiarazioni annuali dei redditi e dell'IVA è presidiato dalle conseguenze civilistiche della violazione dell'obbligo posto a carico del contribuente (interessi di mora e sanzioni)”. In poche parole spetta esclusivamente al giudice penale il compito di procedere all'accertamento e alla determinazione dell'ammontare dell'imposta evasa, ai fini dell'individuazione del superamento o meno della soglia di punibilità, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche ad entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria. È quindi possibile che la pretesa tributaria dell'amministrazione finanziaria venga ridimensionata o addirittura invalidata nel giudizio innanzi al giudice tributario, senza che ciò possa vincolare il giudice penale e senza che possa quindi escludersi che quest'ultimo pervenga - sulla base di elementi di fatto in ipotesi non considerati dal giudice tributario - ad un convincimento diverso e ritenere nondimeno superata la soglia di punibilità per essere l'ammontare dell'imposta evasa superiore a quella accertata nel giudizio tributario. Secondo Giovanni D’Agata, presidente dello "Sportello dei Diritti" la quarta sezione penale ha ritenuto di dare ragione al contribuente sostenendo che la responsabilità penale per i fatti ipotizzati dagli inquirenti non si configura se non viene superata la soglia di punibilità, 50 mila euro dopo il 2011. Questa prassi di contestazione usata dall’amministrazione finanziaria, è stata inaugurata dalla Corte di cassazione che ha imposto un solo limite al fisco: la prova di quella che sarebbe stata l’operazione commercialmente valida al posto di quella elusiva. Ancora oggi solo al vaglio del Parlamento una serie di disegni di legge che hanno come obiettivo dare certezza alle molte oscillazioni giurisprudenziale e soprattutto regolamentare il potere dell’amministrazione finanziaria sull’abuso del diritto. Molte le preoccupazioni di imprese e professionisti che fin dalle prime sentenze della Corte di cassazione hanno temuto un sacrificio troppo grande della libertà economica.

 


Giro di vite alle ganasce fiscali selvagge


Giro di vite alle ganasce fiscali selvagge. Il fermo amministrativo del veicolo risulta sproporzionato rispetto al debito con l’erario.

L’atto  non adeguatamente motivato del fermo amministrativo del veicolo deve considerarsi nullo perché configura un’applicazione «indiscriminata». Lo ha sentenziato la Ctr di Genova con il verdetto 130/13. Nella  fattispecie la Commissione Tributaria provinciale aveva bocciato il ricorso della contribuente contro la cartella di pagamento e conseguente preavviso amministrativo di due veicoli. Mentre per la Corte regionale che il fermo amministrativo iscritto dal concessionario della riscossione sul veicolo del contribuente risulti illegittimo se tale misura è sproporzionata rispetto al debito erariale: l’applicazione in materia indiscriminata della ganasce fiscali potrebbe configurare un eccesso di potere da parte del concessionario della riscossione. In particolare, se il provvedimento cautelare non è adeguatamente motivato e sussiste una sproporzione tra misura adottata credito tributario. Gli strumenti concessi  al concessionario devono essere adottati nel rispetto delle norme sul procedimento amministrativo e dello Statuto del contribuente (legge 212/00) e perciò devono essere motivati. Dunque, va annullato il fermo amministrativo e compensate le spese. Come da tempo denuncia Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, a causa della rigidità degli strumenti affidati dal legislatore all’ente per il recupero coatto dei debiti nei confronti della pubblica amministrazione e delle crescenti difficoltà a “interloquire” con l‘ente è imprescindibile l'esigenza di tenere conto della situazione di difficoltà in cui versa una parte dei contribuenti e delle imprese a causa della crisi. Il fenomeno che più preoccupa è quello ai danni degli imprenditori e delle imprese che, dopo aver deciso di regolarizzare la propria posizione con il Fisco, sono state portate da Equitalia fino all'orlo del fallimento. Così si uccide il futuro economico del Paese.

 




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Redazione del CorrieredelWeb.it


venerdì 14 febbraio 2014

Multe e Velox nascosti. Riaperto il processo per le multe alle auto

Multe e Velox nascosti. Riaperto il processo per le multe alle auto. Dal dibattimento può emergere la prova della truffa.

Lo ripetiamo senza sosta da anni: dietro autovelox e apparecchi elettronica della velocità non c'è sempre la volontà di migliorare la sicurezza, ma molti, troppi enti locali li utilizzano per " far cassa" comportandosi non di rado, illegittimamente per non dire illecitamente. A dare conferma di questi assunti allo “Sportello dei Diritti”, di cui Giovanni D'Agata é presidente, é la sentenza n. 7020, depositata ieri 13 febbraio dalla seconda sezione penale della Corte di Cassazione a seguito della quale verrà riaperto il processo per le multe alle auto con l’apparecchio non in regola con il decreto Bianchi. Appaiono fin troppo zelanti gli agenti per non far sospettare l’accordo con l’appaltatore che guadagna a percentuale. Per la Suprema Corte, nella fattispecie il giudice dell'udienza preliminare non può pronunciare il «non luogo a procedere» se in dibattimento astrattamente possono essere rivalutati gli elementi di prova acquisiti nel corso delle indagini da cui emerge la sospetta truffa con l’autovelox agli automobilisti che si sospetta possa essere stata architettata dai vigili urbani e dal titolare dell’impresa che gestisce l’autovelox. Nel caso di specie, i giudici di legittimità hanno accolto il ricorso del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cosenza, dopo che il gup calabrese aveva dichiarato il non luogo a procedere per i reati di truffa e falso ideologico nella contestazione di verbali al codice della strada nei confronti di tre imputati. Le indagini erano state avviate a seguito della denuncia di un privato che aveva segnalato alla procura della Repubblica che la procedura di contestazione e rilevamento della velocità dei veicoli tramite autovelox reiteratamente non avveniva nel rispetto delle disposizioni del decreto Bianchi (Dl n. 117/2007). Come sovente accade, la visibilità delle apparecchiature era gravemente compromessa da chi si occupava della gestione del servizio. Ma per il gup la condotta «lungi dal rivestire le caratteristiche di un artificio e/ o raggiro, sarebbe stata il frutto di una certa trascuratezza nell’espletamento del servizio», ed aveva escluso la sussistenza di un accordo finalizzato a truffare gli automobilisti. Ma il sospetto del raggiro risulterebbe comunque evidente, stante «l’ostinata reiterazione di modalità di accertamento palesemente contrastante con il dettato legislativo che dimostra che i vigili urbani addetti al controllo si preoccupavano di favorire la società concessionaria del servizio, rivelando così l’accordo tacito volto a beneficiare il titolare della medesima ditta». Risulta, peraltro, altrettanto chiaro l’interesse del titolare dell’impresa individuale (che percepiva una percentuale sulle multe realmente riscosse), a far elevare il numero più elevato di multe da parte degli accertatori e non a garantire la sicurezza degli utenti della strada. Secondo gli ermellini «il non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p., comma 3, deve essere pronunciato dal gup, pur in presenza di prove che in dibattimento potrebbero ragionevolmente condurre all’assoluzione dell’imputato, solo se e in quanto questa situazione di innocenza sia ritenuta immutabile e non superabile in dibattimento dall’acquisizione di nuove prove o da una diversa e possibile rivalutazione degli elementi di prova già acquisiti». Ed infatti, per come rilevato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 39915/2002, «la valutazione critica di sufficienza, non contraddittorietà e comunque di idoneità degli elementi probatori, secondo il dato del novellato art. 425 c.p.p., comma 3 è sempre e comunque diretta a determinare, all’esito di una delibazione di tipo prognostico, divenuta oggi più stabile per la tendenziale completezza delle indagini, la sostenibilità dell’accusa in giudizio e, con essa, l’effettiva, potenziale, utilità del dibattimento in ordine alla regiudicanda».

 


giovedì 13 febbraio 2014

Dev'essere risarcito dal comune il pedone caduto in una buca se l'ente non dimostra che la causa é stato il cantiere stradale

Il fatto é provato dal testimone. Per la lesione liquidati 5 mila euro sulla base tabelle milanesi. Dall'esito della causa non risultano provate condizioni del manto stradale dopo che sono finiti i lavori

 

Ancora una volta Giovanni D'Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, segnala una sentenza che bacchetta un comune per lo stato del manto stradale, causa, troppo soventemente per il dissesto, anche materiale, in cui si trovano le nostre amministrazioni cittadine, di cadute e danni vari.

Nel caso di specie, con la sentenza 26/2014, pubblicata dalla sezione civile del giudice di pace di Ragusa, viene precisato il principio secondo cui sull’ente proprietario della strada incombe la responsabilità da custodia nel caso in cui non avesse coperto una buca, anche se il tratto incriminato è stato interessato da lavori per la posa di cavi elettrici.

Infatti  il comune deve risarcire i danni secondo l'articolo 2051 Cc nel caso in cui dall’istruttoria non emerga in quali condizioni fosse il manto dopo la chiusura del cantiere.

Utilizzate per il calcolo del danno biologico le tabelle del tribunale di Milano che consentono ad una  donna che aveva riportato una frattura ad un piede in conseguenza della caduta in una buca di vedersi liquidato un risarcimento di 5 mila euro tra invalidità permanente e temporanea, ossia nel limite di competenza gdp. Nella fattispecie anche il Ctu ha ritenuto che le lesioni riportate siano compatibili con la ricostruzione della dinamica del sinistro offerta dall’attore.

Né vale per il comune chiamare in causa le imprese che hanno effettuato i lavori sul manto stradale, che a loro volta avevano richiesto la garanzia delle assicurazioni: secondo il magistrato onorario unico responsabile dell’incidente é l'ente poiché un testimone ha dichiarato che il cantiere sul tratto di strada teatro dell'evento non c'era più da tempo.

In definitiva, per il giudice non é stata fornita la prova di una responsabilità di terzi o di un concorso di colpa dell’infortunata e, spetta al comune provvedere al risarcimento integrale dei danni. passeggeri irrilevanti. fattore decisivo è che i voli fallito a causa di un rischio per la sicurezza.

 


martedì 11 febbraio 2014

È reato esporre cassette di frutta e verdura sul marciapiede davanti al negozio

Commette  reato il fruttivendolo che espone cassette di verdura sul marciapiede davanti al negozio. Obbligo di assicurare l’idonea conservazione degli alimenti che non possono esposti agli agenti inquinanti dell’aria

È un fenomeno tristemente noto e diffuso a livello nazionale quello del fruttivendolo che espone gli ortaggi in cassette sul marciapiede davanti alla bottega. Da oggi, però secondo Giovanni D’Agata presidente dello “Sportello dei Diritti”  è sufficiente la messa in commercio di ortaggi esposti agli agenti inquinanti dell’aria per essere condannati penalmente. I giudici con la sentenza 6108/14, pubblicata il 10 febbraio della terza sezione penale della Cassazione, hanno precisato che integra tale fattispecie delittuosa una violazione dell’obbligo di assicurare l’idonea conservazione degli alimenti.  Infatti, non è necessario che gli alimenti siano in cattivo stato di conservazione, laddove a integrare la contravvenzione risulta sufficiente l’esposizione dei prodotti agli agenti inquinanti dell’aria, a partire dai gas di scarico dei veicoli in transito. Il caso riguarda un ortolano del Napoletano condannato all’ammenda di cui all’articolo 5, lettera b), della legge 283/62 per aver esposto alla vendita tre cassette di verdura praticamente in strada, al di fuori della bottega. Non trova ingresso la tesi della difesa secondo cui non sarebbe sufficiente a configurare l’illecito penale la mera collocazione all’aperto degli alimenti, senza segni evidenti di cattiva conservazione o di inosservanza di particolari prescrizioni finalizzate a preservare le sostanze alimentari. In realtà, osservano gli “ermellini”, per integrare la contravvenzione contestata al commerciante non serve che si produca un danno alla salute: l’interesse protetto dalla norma è costituito dal rispetto dell’«ordine alimentare», vale a dire la necessità che gli alimenti giungano ai consumatori con le garanzie igieniche necessarie per natura; ben può configurarsi l’ammenda, allora, se le modalità di conservazione creano un pericolo di danno o deterioramento delle sostanze, ciò che si configura anche quando le condizioni igieniche si rivelano precarie. Nella specie, per l’affermazione della responsabilità penale del fruttivendolo, risulta sufficiente l’accertamento diretto operato da parte della polizia giudiziaria: l’imputato stesso, peraltro, ammette che le cassette erano esposte sul marciapiede antistante l’esercizio commerciale confermando la situazione di fatto rilevata dagli agenti che ha fatto scattare la sua incriminazione. Non resta che pagare, anche le spese del procedimento.

 




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Redazione del CorrieredelWeb.it


venerdì 7 febbraio 2014

Chi va in giro con lo spray urticante rischia il carcere. Ma non quello al peperoncino. A dirlo la Cassazione

Una decisione che farà certamente discutere quella della Cassazione che è intervenuta a sancire che lo spray urticante simile a quello in dotazione alle forze di polizia è assimilabile a un’arma comune da sparo e il porto in luogo pubblico può comportare addirittura il carcere.

La sentenza resa dalla prima sezione penale della Cassazione numero 5719/14, pubblicata ieri 5 febbraio per Giovanni D'Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti” sarà senz’altro contestata da chi ritiene che le famigerate bombolette spray utilizzate per immobilizzare i malviventi possano essere uno strumento utile per l’autodifesa, come nel caso della prevenzione delle violenze sessuali.

Nel caso di specie, i giudici di legittimità hanno rigettato il ricorso e quindi confermato la condanna a otto mesi di reclusione nei confronti dell’imputato con precedenti specifici per la detenzione di tre bombolette “superparalizzanti” da 40 ml ciascuna, in dotazione alle forze di polizia di vari Paesi occidentali, compreso quelle italiane, per il controllo dell’ordine pubblico: lo spray è a base di orto-clorobenziliden-malonitrile, altrimenti detta “Cs”.

A nulla è valsa la difesa del reo che aveva rilevato come in sede d’indagine non fosse stata effettuata l’analisi quantitativa sull’esatto valore di concentrazione del principio attivo contenuto nelle bombolette. Circostanza questa ritenuta irrilevante dal giudice del merito che aveva fondato la decisione solo sul dato «max 80 mg» indicato dall’etichetta.

Per la Suprema Corte, infatti, nel caso di detenzione di questi strumenti, ben si può prescindere dall’esame quantitativo del prodotto, dal momento che le bombolette sono fabbricate e poste in commercio con una dichiarata destinazione offensiva.

Risulta, quindi, inevitabile l’assimilazione all’arma comune da sparo di cui all’articolo 2 delle 110/75: il porto in luogo pubblico integra il reato previsto dall’articolo 4 della legge 895/67 e successive modificazioni. E ciò perché lo spray è a base di aggressivi chimici. Diversa fattispecie, sottolineano i giudici, è costituita dal porto dello spray a base di peperoncino, anch’esso urticante.

 


lunedì 3 febbraio 2014

Genero dà della «vipera» alla suocera, assolto dalla Corte di Cassazione

Non integra l’ingiuria per il genero che durante una lite utilizza l’espressione incriminata per spiegare agli agenti della polizia  intervenuti, la sua versione dei fatti

 

Per la Corte di Cassazione il genero che paragonò la suocera ad una vipera non commise reato se l’espressione non è indirizzata all’interessata, ma viene usata per descrivere agli agenti di polizia, il comportamento della donna. Lo afferma la Cassazione con la sentenza n. 5227 del 3 febbraio, depositata dalla quinta sezione penale. Il reato d’ingiuria, come spiega il collegio di legittimità, «si perfeziona per il solo fatto che l’offesa al decoro o all’onore della persona avvenga alla sua presenza». Non solo. Non integrano la condotta di ingiuria «le espressioni verbali che si risolvano in dichiarazioni di insofferenza rispetto all’azione del soggetto nei cui confronti sono dirette e sono prive di contenuto offensivo nei riguardi dell’altrui onore o decoro, persino se formulate con terminologia scomposta ed ineducata». Gli Ermellini hanno annullato la condanna del tribunale di Nicosia alla pena e al risarcimento dei danni in favore della parte civile (la suocera appunto) per aver utilizzato, alla presenza di più persone, l’espressione «è scesa mia suocera come una vipera». Espressione pronunciata dal ricorrente in un contesto di rapporti tesi a causa di una crisi di coppia con la figlia della parte civile. Se, però, l’espressione non è rivolta all’interessata ma viene utilizzata per descrivere agli agenti di polizia il comportamento della donna, non può ritenersi offensiva e integrare reato. La valenza offensiva di una determinata espressione, continua la Corte suprema, «deve essere riferita al contesto nel quale è stata pronunciata». In questo caso, la frase, pronunciata alla fine di un litigio che aveva costretto le forze dell’ordine a intervenire e per descrivere, nella concitazione del momento, le modalità dell’azione della suocera «non si connota in termini di offensività idonei a giustificare l’attivazione della tutela penale». Proprio perché il reato non sussiste, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio. Per Giovanni D'Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, la vicenda che si è chiusa definitivamente con il pronunciamento nel terzo grado di giudizio è un classico: tra marito e moglie ci sono contrasti e suocera e genero sono contrapposti.

 


sabato 1 febbraio 2014

Patente a punti. Nessun obbligo di comunicare i dati del conducente per chi ricorre alla multa principale

Giovanni D'Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti” segnala una nuova significativa decisione in materia di patente a punti ed obbligo di comunicare i dati del conducente, secondo la quale chi impugna il verbale non deve comunicare alcunché all’autorità che ha contestato la multa.

Secondo il giudice di pace di Parma con la sentenza 703/13, magistrato onorario Germana Cesaretti ciò vale se il trasgressore nel frattempo ha impugnato di fronte al giudice di pace competente il verbale presupposto da cui scaturisce l’obbligo informativo stabilito articolo 126 bis Cds.

Nel caso di specie, è stato accolto il ricorso di una società cui era stata notificato un verbale che presupponeva anche l’obbligo di comunicare i dati dell’effettivo trasgressore, nonostante la circostanza che l’azienda avesse già proposto opposizione davanti a un altro ufficio del giudice di pace, competente per territorio, che, peraltro, nelle more annullava anche il verbale riferito alla sanzione principale.

Per il magistrato onorario, la causa relativa all’impugnazione della multa sottesa agli obblighi informativi ha natura pregiudiziale rispetto alla causa per la mancata comunicazione delle generalità di chi era alla guida.

Ciò comporta che non si può assolvere all’obbligo fino a quando il primo giudizio non risulta definito.

In nessun caso, rileva il giudice, il proprietario è tenuto a rivelare i dati personali e della patente del conducente prima della definizione dei procedimenti giurisdizionali o amministrativi per l’annullamento del verbale di contestazione dell’infrazione.

Effettivamente, nel sistema delineato dal codice della strada per quanto riguarda la patente a punti la decurtazione può essere attuata soltanto quando l’accertamento è definitivo, vale a dire quando risulta avvenuto il pagamento della sanzione o concluso il procedimento del ricorso (amministrativo o giurisdizionale) oppure ancora è scaduto il termine per l’opposizione.

Peraltro, il provvedimento sanzionatorio presupposto è stato addirittura annullato da un altro giudice di pace e dunque la stessa sorte deve seguire anche il secondo verbale.

 


Biciclette contromano. E' in arrivo una bufala italiana con targa fiorentina?


Firenze, 1 Febbraio 2014. Ogni tanto, grazie a qualche solerte amico della mobilita' in bicicletta, viene fuori l'ipotesi di consentire alla biciclette di andare contromano. Era gia' successo due anni fa e oggi, grazie al sottosegretario al ministero dei Trasporti, Erasmo De Angelis, sembra che fra pochi mesi sara' una realta' nazionale.
Giustamente preoccupate le associazioni di automobilisti... che cosa sembra che stia per essere concepito? Le indiscrezioni di un quotidiano nazionale (1) ci fanno sapere che il contromano delle biciclette sara' consentito “purche' in strade con l'obbligo dei 30 Km all'ora, la carreggiata larga almeno 4 metri al netto della sosta, senza parcheggio a sinistra e vietate ai mezzi pesanti”. Una chimera? Se le singole amministrazioni comunali non provvederanno alla segnaletica necessaria (carenza probabile, visto la diffusa considerazione solo propagandistica che gli amministratori hanno della mobilita' a pedali), sicuramente ogni ciclista, per essere sicuro di non incorrere in un'infrazione, dovra' girare armato di un metro e, prima di avviarsi contromano, dovra' andare a piedi in cima alla strada per vedere se alcune caratteristiche minime (tipo limite di 30 e divieto ai mezzi pesanti) ci sono.
Fantasia? Non proprio. Ma solo una riflessione che ci e' venuta in mente quando abbiamo visto l'altro giorno, su molti media nazionali, che il segretario nazionale del Pd, nonche' Sindaco di Firenze Matteo Renzi, aveva lasciato i suoi impegni nazionali per inaugurare nella sua citta' un nuovo tratto di pista ciclabile: una bretella tra via Baracca e via di Novoli lungo il corso del fiume Mugnone, che corre lungo una strada, viale Redi, che in quel tratto ha traffico vicino allo zero ed e' quasi esclusivamente un parcheggio; una bretella che congiunge, dal punto di vista delle biciclette, il nulla al nulla, cioe' due strade molto trafficate che proprio li' dove inizia e finisce la pista ciclabile si restringono per i relativi ponti sul fiume, e dove se uno ci passa in bicicletta, oltre al probabile cancro ai polmoni, corre buoni rischi di “arrotamento”.
Era cosi' importante l'inaugurazione di questa “pista ciclabile” da far desistere il nostro Sindaco da importanti impegni nazionali nella sua veste non-amministrativa? Probabilmente e' stato cosi' per lui, ma noi, che andiamo in bicicletta non solo quando ci sono i fotografi che ci riprendono, l'abbiamo letta in altro modo. E abbiamo collegato le anticipazioni del sottosegretario De Angelis (fiorentino, ex presidente Publiacqua, e della “componente renziana” del Pd) sulle norme per le bici contromano al medesimo intento: provvedimenti che nella pratica non servono a nulla, ma che nell'immaginario e nel riflesso mediatico servono a far sembrare bravi, buoni e belli i proponenti e gli inauguratori. E i ciclisti, che come gli altri sono contribuenti, pagano....

(1) La Repubblica del 01/02/2014, pag 1

Vincenzo Donvito, presidente Aduc




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Redazione del CorrieredelWeb.it


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