Anche la Suprema Corte si dimostra intransigente sull'evasione fiscale. Secondo la sentenza n. 42160 del 29 novembre 2010 della terza sezione penale risponde di evasione fiscale chi non dichiara i profitti derivanti dallo sfruttamento della prostituzione e rischiano una condanna per evasione fiscale i soggetti che non dichiarano i proventi derivanti dall'attività illecita di sfruttamento della prostituzione.
I giudici di piazza Cavour, hanno respinto il ricorso di una donna condannata per non aver dichiarato, nel 2003, quasi 200mila euro di profitti derivanti dallo sfruttamento della prostituzione sottolineando che " I redditi così ottenuti sono comunque imponibili ". La tesi difensiva addotta dall''imputata si basava sul fatto che i redditi provenienti da attività illecita non potevano essere ritenuti assoggettabili a tassazione.
I giudici nel respingere il ricorso, hanno invece ribadito che "secondo l'interpretazione autentica fornita dall'art.14 comma quarto della legge n.537 del 1993 con riguardo al testo unico sulle imposte dei redditi n.917 del 1986, tra le categorie dei redditi tassabili classificate nell'art.6, comma primo, devono intendersi ricompresi anche i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo. Risponde dunque del reato di cui all'art. 5 d.lgs. 74/2000 chi non dichiara i proventi derivanti dall'attività illecita di sfruttamento della prostituzione, al fine di evadere le imposte sui redditi.".
Secondo Giovanni D'AGATA, componente del Dipartimento Tematico "Tutela del Consumatore" di Italia dei Valori e fondatore dello "Sportello dei Diritti" la rigorosa sentenza della cassazione penale ha infatti posto le basi per un giro di vite nei confronti dell'evasione fiscale senza sconti per nessuno.
Lecce, 29 novembre 2010
Giovanni D'AGATA
Dipartimento Tematico Nazionale
"Tutela del Consumatore"
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