Esaminiamo i cinque principali motivi scritti dalla Confindustria per il Si al referendum. Primo: "il superamento del bicameralismo paritario, che significa più stabilità e governabilità. I Governi potranno assumere decisioni nell'interesse generale senza guardare al consenso di brevissimo periodo ma pensando al benessere dei cittadini". Solo che, passare dall'attuale bicameralismo paritario al proposto bicameralismo differenziato, di per sé non produce affatto più stabilità e governabilità. E' il particolare assetto istituzionale immaginato dalla proposta di revisione che lo realizza nel senso auspicato da Confindustria, attraverso la diminuita influenza elettorale del cittadino e la riduzione di forme e portata del continuo confronto tra idee e progetti diversi, come se stabilità e governabilità derivassero da soffocare idee e progetti. Non è un mio giudizio malizioso. Sta scritto con evidenza nel secondo periodo di questo primo punto confindustriale. I Governi – e non i risultati elettorali – stabiliscono quale è l'interesse generale dei cittadini e il benessere da loro voluto.
Secondo: "il miglioramento della qualità dell'attività legislativa, che significa riduzione del time to market delle politiche pubbliche". Solo che nella proposta non esiste alcuno spunto per attivare questa maggior qualità, anzi le procedure vengono moltiplicate e la stessa proposta è un prototipo di pessima tecnica legislativa, abborracciata e foriera di frequentissimi contenziosi, cioè il contrario di una politica pubblica produttiva di relazioni funzionanti.
Terzo: "la semplificazione e modernizzazione dei rapporti tra i diversi livelli di governo, che significa maggiore collaborazione tra Stato e autonomie e superamento della logica dei veti". Solo che, ancora una volta, si tratta di puri desideri senza riscontro nel testo. Anche a prescindere dal fatto che la proposta di revisione complica moltissimo le modalità legislative parlamentari, i rapporti da essa previsti tra i diversi livelli di governo sono al tempo stesso troppo devoluti allo Stato eppure troppo indefiniti e confusi. Basti citare alcuni dei tanti aspetti. Un comma del proposto art. 117 sancisce che, su iniziativa del Governo, la legge dello Stato può, senza condizioni ben specificate, decidere su ogni argomento trascurando le norme esistenti in materia. Ciò configura il massimo della centralizzazione in tempo di pace. Il proposto art. 55 definisce il Senato rappresentante delle istituzioni territoriali ma il proposto art. 68 stabilisce che anche i Senatori esercitano le funzioni senza vincolo di mandato; di conseguenza, la dichiarata rappresentatività del Senato delle istituzioni locali è accompagnata dal divieto di mandato da parte di queste ultime: ma allora che rappresentanza è mai? Tanto per citare un altro degli innumerevoli casi di confusione, si tenga presente che il proposto art. 117 elimina la legislazione concorrente tra Stato e Regioni, però , nel distribuire le competenze tra Stato e Regioni (tre quarti allo Stato), non attribuisce né allo Stato né alle Regioni la competenza esclusiva in materie importanti, quali lavori pubblici, industria, agricoltura, artigianato, miniere. Ciò sarà di certo fonte di contenziosi frequentissimi.
Quarto: "l'introduzione di misure di efficientamento della finanza pubblica, che significa soprattutto maggiore controllo sulla quantità e qualità della spesa degli enti regionali e locali". Solo che, ancora una volta, sono parole prive di riscontro in innovazioni sostanziali nel testo della proposta di revisione. Infatti, le novità sono il proposto art. 97 che aggiunge ai principi cui gli uffici pubblici devono rifarsi la sola parola "trasparenza", la quale però è già presente da oltre un quarto di secolo nella legislazione ordinaria in materia. E poi, riguardo alle risorse raccolte da Comuni e Regioni per finanziare le rispettive funzioni, il proposto art. 119 aggiunge che il finanziamento deve essere "integrale" e che la legge definisce indicatori di riferimento per costi e fabbisogno. Quindi nessuna nuova misura introdotta per migliorare la spesa pubblica o controllarne l'efficienza.
Quinto: "il successo del NO causerebbe il caos politico e interromperebbe il ricupero intrapreso e facendo ricadere l'economia italiana in recessione". Questo è il punto riassuntivo che fa emergere il reale intento della Confindustria. Che non è la tesi di sapore un pò favolistico del ricupero già intrapreso bensì l'idea stessa che la ricetta della proposta di revisione (accentrare lo Stato e rendere le istituzioni più lontane dai cittadini) sarebbe il modo giusto per far crescere l'economia del paese. Vale a dire l'idea che l'economia cresce solo a prezzo di comprimere la libertà dei cittadini. Per i liberali un simile concetto è pericoloso, perché va contro l'esperienza storica per cui la capacità dei cittadini di intraprendere dipende dalla loro libertà. Einaudi, nel 1924 sul Corriere della Sera, già criticava direttamente gli industriali i quali "insistono sulla necessità preminente di un governo forte; e ritengono che la tranquillità sociale, il pareggio del bilancio, siano beni tangibili di gran lunga superiori al danno della mancanza di libertà politica. Per loro il pensare, il battagliare politicamente sono beni puramente ideali, dei quali si può anche fare a meno". Ci risiamo.
In conclusione, le ragioni addotte dalla Confindustria per appoggiare la proposta di revisione costituzionale sono pericolose in termini di cultura politica usata per stabilire le regole di convivenza e del tutto sballate in termini di corrispondenza ai normali criteri legislativi. Può essere utile vedere sul sito del Comitato NO al peggio (www.perlelibertanoalpeggio.it) il confronto comma per comma tra il testo della Costituzione vigente e la proposta di revisione accompagnato da puntuali valutazioni di merito.
Raffaello Morelli
del Comitato
Per le LIBERTA' dei CITTADINI NO AL PEGGIO
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www.CorrieredelWeb.it
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